-di David Crescenzi- Sulla scomparsa di Umberto Veronesi si è scritto tanto in queste ore: grande scienziato e oncologo, uomo di profonda umanità vicino ai malati, alle loro famiglie e, soprattutto, alle loro sofferenze; ma anche persona di cultura, impegnata civilmente e politicamente, con un passato da socialista, prima, e da Ministro della sanità del Governo Amato, poi. In queste sue molte sfaccettature, si può dire che Veronesi abbia vissuto in realtà molte vite. Infatti, c’è stato lo scienziato, il quale ci ha lasciato in eredità tecniche chirurgiche rivoluzionarie, quali la quadrantectomia contro il tumore alla mammella, nonché una Fondazione che porta il suo nome ed è deputata a sostenere la ricerca medica nei più disparati ambiti. Quindi, c’è stato il Veronesi uomo pubblico, il quale sarà ricordato come uno dei più accesi fautori della legge antifumo, che tenacemente volle da Ministro, come pure della cultura della prevenzione, del rispetto per l’ambiente e, soprattutto, del diritto di autodeterminazione individuale.
D’altro canto, se davvero si volesse azzardare a trovare un filo rosso capace di compendiare in modo unitario la parabola terrena di Veronesi e le sue molte vite, ebbene, questo si rinverrebbe nel suo essersi posto come pensatore sinceramente libero, benché sempre attento a interrogarsi su un quid che oggi viene spesso dimenticato di fronte alle infinite potenzialità offerte dalla tecnica: quello del limite etico. Infatti, sebbene Veronesi assunse sovente posizioni per nulla condivise da tutte le forze sociali del Paese, come ad esempio in materia di interruzione di gravidanza, fecondazione assistita o testamento biologico ed eutanasia, gli va riconosciuto il merito di aver perorato queste tesi sempre con raziocinio e lucidità. E questo riconoscimento dovrebbe essere tributato anche da parte del mondo cui appartengono quelli come me, il mondo di quel centro-destra che, nel corso dell’odierna modernità (baumaniamente liquida, innervata dai più accesi relativismi e sempre pronta a stigmatizzare chi confida in una qualche Verità), ancora crede che esistano dei valori non negoziabili, sottratti a quel diritto di autodeterminazione pure tanto caro a Veronesi.
Del resto, solo un’analisi superficiale potrebbe liquidare il pensiero di questo grande protagonista del nostro tempo come ciecamente scientista e intollerante verso coloro che non si riconoscevano nel suo credo civile. Penso, ad esempio, al vegetarianismo di Veronesi, talvolta liquidato con un’ironia dissacrante non dissimile da quella di un Cruciani contro i vegani, ma che egli non visse mai come un obiettivo da imporre agli altri, bensì, come un imperativo etico (più che medico) per se stesso, come segno tangibile di rispetto verso la sofferenza di quegli esseri senzienti che sono anche gli animali. Ma penso, specialmente, alle posizioni più strettamente attinenti ai limiti della libertà individuale, come in tema di aborto: infatti, pur non pervenendo alla stregua di molti cattolici a sposare il motto di Tertulliano per cui “homo est qui est futurus” (nel senso che anche il feto fin dalla sua formazione è una vita umana), nel suo libro “Dell’amore e del dolore delle donne”, Veronesi ravvisava nell’interruzione di gravidanza non un diritto bensì “una tragedia”, cui non si poteva che essere idealmente contrari tanto che, giusta la necessità di regolamentarla per contrastare il “male maggiore” che avrebbero rappresentato (per la salute della donna) gli aborti clandestini, non si sarebbe mai dovuto rinunciare a combattere le cause sociali che la rendevano possibile. Una posizione, questa, che egli assumeva sulla base di un assunto laico e scientifico, quello per cui l’aborto si oppone all’ “imperativo genetico della riproduzione”. Ecco, dunque, un punto veramente centrale nell’eredità morale di Veronesi: quest’uomo, che pur avendo abbandonato la Fede si interrogava sull’etica (in un’intervista a Repubblica del novembre 2015 ebbe a dichiarare che “l’impegno etico è la sola cosa che mi ha lasciato Dio”), riusciva ad utilizzare la scienza, unitamente alla conoscenza dei fenomeni sociali, per trovare il limite etico alla configurazione di un atto come diritto. Un aspetto, questo, su cui mi sento intimamente in linea con Veronesi dato che, mi piace testimoniarlo in questa sede, è stata la scienza (prima ancora della religione) a plasmare la mia visione sull’aborto, suggerendomi che il concepito si sostanzi in una vita umana in quanto caratterizzato da un genoma che già la contraddistingue e che non riesco a vedere diversa da quella di un bambino nato solo perché il feto ha ancora bisogno di un tempo tecnico per formarsi.
Tuttavia, ciò che forse è ancor più significativo nell’eredità del grande scienziato è stata la ricerca di paletti alla scienza stessa, come quando in un’intervista a Panorama dichiarò che, indipendentemente da qualsivoglia divieto legislativo, “non” sarebbe comunque risultato “giusto” giocare con le manipolazioni del genoma umano, anche se la tecnica lo rendeva astrattamente possibile e anche se si fossero trovati un genetista e una madre tanto “spregiudicati” da volerlo. Ora, che cosa era questo self-restraint dell’uomo di scienza se non la dimostrazione empirica di uno spirito che, nel proprio io-immanente, sa ricercare e infine trovare la legge morale di cui parlava Kant? Una sorta di codice iscritto dentro la nostra coscienza, terrena o ultraterrena che la si voglia considerare, la quale non è affatto diversa da quella dell’uomo di fede. Come non scorgere, insomma, nella Bibbia laica di Veronesi delle assonanze con tutti coloro che ricercano una qualche verità nella realtà?
Di certo, non è mia intenzione spingere questo parallelismo fino al punto di immedesimare il pensiero di questo scienziato con quello di un religioso, anzi, Veronesi vedeva la Scienza in contrapposizione con la Fede perché, come dichiarava sempre nella suddetta intervista a Panorama, “la prima” vivrebbe “di dubbi”, mentre “la seconda” presupporrebbe “di credere ciecamente in una specie di leggenda senza il diritto di criticarla o metterne in dubbio dogmi e misteri”. Una prospettiva che certo non appartiene a molti di quelli che pure oggi lo ricordano con deferenza e stima, come lo scrivente, più persuaso della circostanza che, per dirla con Benedetto XVI, la scienza possa ergersi a “preziosa alleata della fede per la comprensione del disegno di Dio nell’universo”, mentre la fede possa illuminare la scienza, per il fatto di indurla a porre il “progresso scientifico” sempre al servizio del “bene” dell’uomo concorrendo, altresì, a individuare (non meno della coscienza civile del laico) quello che di volta in volta deve essere il limite etico della tecnica. D’altra parte, questa differenza di fondo, non inficia in alcun modo il giudizio positivo che in questa sede si sente di tributare ad un uomo, Veronesi, cui va dato atto di aver vissuto una vita piena senza il timore, per parafrasare il Jules Winnfield di Pulp Fiction, di porsi le “domande che atterriscono” e di darsi le “risposte che spaventano” (come quelle sull’esistenza di Dio), trovando infine il modo di arrivare ai suoi ultimi giorni senza paura alcuna della morte e conscio di aver lasciato un’eredità che gli sopravviverà: quella insita in ciò che lui stesso chiamava il “pensiero immanente” che continuerà a vivere in coloro che lo ricorderanno e che continueranno a portare avanti la sua opera. Per questo, mi piace dirgli addio con le parole di Pascal, secondo cui, al cospetto della nostra piccolezza di fronte all’universo, “tutta la nostra dignità” di essere umani sta proprio “nel pensiero”, perché è “in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare”, perché è questo “il principio della morale”.