Nato nel 1955 ad Erzincan e laureatosi con master in Scienze Navali e della Navigazioe al politecnico di Istanbul, Yildirim avvia la collaborazione con Erdoğan – allora sindaco della città – negli anni ’90, quando ricopre la carica di direttore generale dell’amministrazione del trasporto marittimo sul Bosforo. Cresciuto politicamente con il “Sultano” ed ottenuto l’incarico governativo dopo la fondazione del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, seppur noto a livello internazionale per aver oscurato Youtube e Twitter all’inizio del 2014, Yildirim contribuisce fortemente all’esponenziale sviluppo infrastrutturale del proprio paese, annoverando risultati oggettivamente straordinari in 11 anni: 17.500 km di autostrade, 1213 km di linee ferroviarie ad alta velocità, 29 aeroporti, metro subacquea di Marmaray, terzo aeroporto di Istanbul e terzo ponte sullo stretto del Bosforo tra le più rilevanti.
Con uno slogan molto in voga dalle nostre parti, l’AKP l’ha definito l’ “uomo del fare”. Pragmatico e concreto, il neo primo ministro succede all’idealismo ed alla caratura intellettuale di un accademico come Davutoğlu, il quale aveva annunciato in una conferenza stampa del 5 maggio scorso le proprie dimissioni a causa delle insanabili divergenze con la Presidenza della Repubblica: universalmente riconosciuto come la “mens” dietro la dottrina del neo-ottomanesimo, l’indirizzo di politica estera alla base del risveglio globale e l’attivismo diplomatico di Ankara, Davutoğlu era sempre più restio ad essere considerato mero cane da guardia e ricevere unilaterali ordini da parte di Erdoğan. Un braccio di ferro che l’ex premier era ben consapevole di non poter vincere e che lo ha inevitabilmente portato alle dimissioni. Dell’assoggettamento di Yildirim al Capo dello Stato, dunque, ne possiamo esser certi; ma per passare dalle infrastrutture alla gestione della delicata situazione di Ankara sul piano interno ed internazionale occorre essere assai preparati.
Nell’agenda governativa di Yildirim, le priorità saranno tre: lotta al terrorismo, adesione all’Unione Europea e soprattutto riforma costituzionale. Con il fine ultimo di impedire la conquista di eccessiva autonomia della minoranza curda, nella regione sud-orientale della penisola è in corso una vera e propria guerra che vede contrapposto l’esercito anatolico al PKK – il quale risponde con atti di virulento terrorismo; un conflitto che ha già causato oltre 450 soldati e più di 4.500 ribelli morti dall’inizio delle ostilità e che potenzialmente potrebbe portare al partizionamento della Turchia. Per quel che riguarda le negoziazioni con Bruxelles, a seguito dell’indisponibilità di Erdoğan di modificare la legge antiterrorismo – utile al Presidente per esercitare una forte pressione sulla stampa – sembra aver portato le negoziazioni ad una impasse. Anzi, l’ex “delfino” Davutoğlu si faceva promotore di una linea europeista che stimolava la diplomazia europea e proprio l’accondiscendenza nei confronti dell’Europa nell’ambito dell’accordo sui visti per i cittadini turchi è stato uno dei motivi degli attriti tra l’ex primo ministro ed il “Sultano”. Non è errato presumere, nonostante sia difficile effettuare previsioni sulla stabilità della situazione interna e sulle sorti del neo-ottomanesimo, che la Turchia investirà ora una ancor più risorse nella proiezione egemonica di sempre maggior influenza nel Medio Oriente voltando le spalle all’Europa.
Per quel che riguarda la trasformazione dell’assetto statale in Repubblica presidenziale, lo scoglio principale con il quale Yildirim dovrà fare i conti è la rappresentanza dell’AKP in Parlamento: per riformare la Costituzione senza alleanza sarebbero necessari 367 seggi (rispetto ai 317 di cui dispone oggi il Partito di maggioranza). Quali via percorribili? Una prima opzione prevede la ricerca di un accordo con altre formazioni partitiche che consentirebbe all’AKP di ottenere il numero minimo – 330 parlamentari – per proporre un referendum popolare inerente la Costituzione. La seconda, invece, un’alternativa più densa di incertezze rispetto alla precedente, prevede lo scioglimento anticipato delle Camere da parte di Erdoğan ed una nuova competizione elettorale – la terza da giugno 2015. La portata della sfida circa l’epocale trasformazione istituzionale della Repubblica fondata da Ataturk ne rende meno scontato l’esito finale. Insomma, Ankara si trova ad un bivio e la domanda sorge spontanea: Binali Yildirim sarà l’ultimo primo ministro della Turchia? Forse sì.