La rivoluzione anti-kemalista del presidente Erdogan procede a passo spedito. Dopo aver allontanato le Forze Armate – tradizionali guardiane della laicità dello Stato – dalle leve del potere, il “sultano” ha anche smontato la macchina politico-amministrativa ereditata dal “padre della patria” Mustafa Kemal Ataturk con questo referendum. L’impressione è che mentre all’estero il neo-ottomanesimo ha perso qualche colpo in Siria, Libia e Mar Nero, all’interno è più solido che mai, così come il consenso per Erdogan. E’ sempre più evidente che il “neo-ottomanesimo” sia una dottrina di stampo personalistico, legata cioè alla figura del suo fondatore, ma niente esclude che Erdogan possa costruire un impianto costituzionale che dia continuità alla propria “rivoluzione”.
Le uccisioni sommarie nei giorni del golpe e gli arresti indiscriminati che tutt’ora avvengono hanno fatto piazza pulita dell’opposizione militare e di quella – sotto certi aspetti più importante – intellettuale. Senza contare poi il sostegno ricevuto anche dall’opposizione nazionalista dell’MHP (Partito del Movimento Nazionalista, braccio politico dei Lupi Grigi) convinta del fatto che fosse necessaria una svolta presidenzialista in Turchia. Al di là delle contestazioni per presunti brogli che si spegneranno a breve giro, nel giro di qualche settimana, Erdogan ha ottenuto un’importante risultato che gli consentirà di negoziare da pari con altri capi di Stato sulle importanti questioni internazionali in cui la Turchia è impegnata.
Subito dopo la proclamazione dei risultati definitivi Erdogan è stato raggiunto da una telefonata del presidente statunitense Donald Trump che, oltre a congratularsi per la vittoria nel referendum, ha anche posto l’accento su questioni salienti come la guerra in Siria e la lotta al terrorismo. E’ probabile che Ankara voglia riprendere a breve la propria fase “interventista” in politica estera ponendo le basi per una collaborazione turco-americana in funzione anti-siriana. La “luna di miele” tra Erdogan e Putin, ampiamente propagandata dalle diplomazie turca e russa, sembra essere già terminata per inconciliabili differenze: il sostegno incondizionato di Mosca ad Assad è un “attentato” agli interessi di Ankara nel Levante, per non parlare del velato contributo politico che i russi stanno dando alle rivendicazioni curde in Iraq e Siria settentrionale. L’indipendentismo dei curdi in armi al confine con la Turchia da tempo si è saldato con l’irredentismo latente al di qua della frontiera; la questione curda è stata la prima valvola che ha fatto scattare l’intervento armato turco in Siria all’inizio della guerra e questa nuova fase di stallo non esclude possibili “ricadute”.
Nell’entourage di Erdogan la possibilità che esista un Kurdistan indipendente è il primo dei problemi da evitare; questo spiega anche i rinnovati contatti con Washington dopo il gelo caduto sulle relazioni bilaterali nel periodo post-golpe. Gli USA non sembrano infatti disposti a ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente e la nascita de jure del Kurdistan – che però esiste de facto visto il contributo dei peshmerga alla lotta contro l’ISIS e le altre formazioni islamiste – sarebbe un cambiamento non da poco. Tuttavia la Casa Bianca dovrà fare i conti con un’opinione pubblica internazionale solidale con la causa curda, specie in questa guerra. Erdogan sarà l’attore protagonista del fronte anti-curdo ora che dispone dei poteri necessari per affrontare la questione in tutta la sua gravità. Combattere Assad significa anche combattere l’indipendentismo curdo, questo ad Ankara lo sanno bene, ed è probabile una “radicalizzazione” delle posizioni diplomatiche del “sultano” già in questi giorni. Obiettivo non dichiarato ma intuibile è quello di “congelare” il conflitto siriano fino a condizioni più adatte per intervenire con forza sul tavolo delle trattative.