– a cura di Filippo del Monte – La Turchia ha chiesto all’Unione Europea di mettere fine alla politica dei visti, pena il mancato rispetto da parte di Ankara degli accordi presi con Bruxelles sul fronte dell’emergenza immigrazione. Erdogan e Davutoglu stanno dunque tentando di convincere l’UE a rinunciare alle proprie riserve sui visti ricattandola: da “muro” contro l’immigrazione la Turchia potrebbe rapidamente convertirsi in “porto franco”, concedendo il passaggio a chiunque verso le porose frontiere comunitarie. Eppure credere che la vera partita in questo caso si giochi sul contrasto all’immigrazione sarebbe sbagliato. Il “ritorno di fiamma” del duo Erdogan – Davutoglu per la politica di potenza nel Levante – a danno della Siria e di competitors più lontani e potenti come l’Iran – ha alcuni pilastri fondamentali che devono essere rispettati, punti essenziali da non trascurare per fare in modo che la presenza turca in Medio Oriente non sia limitata al momento contingente. Se il “contenimento” della Russia è l’obiettivo nel medio termine, lo strumento per raggiungerlo è senza dubbio avere le “spalle coperte” ad Ovest, cioè avere rapporti cordiali con l’Europa o comunque fare in modo che non intralci le politiche di Ankara. La seconda fase del neo-ottomanesimo teorizzato e perseguito dal “sultano” Erdogan e dal suo fidato primo ministro non è affatto di consolidamento dei risultati raggiunti, ma è ancora una volta un’offensiva su larga scala per smembrare la Siria (o ridurla ad innocuo vicino), sconquassare il movimento nazionalista curdo ed impedire alla Russia ed all’Iran di costituire sulle rovine siriane e libanesi una “linea vitale” che le porti a raggiungere le calde acque del Mediterraneo orientale. Minacciandola di non rispettare gli accordi presi, la Turchia sperava di costringere l’Unione Europea a fare concessioni che in questo momento sarebbero gravide di conseguenze. Alla Germania, prima Potenza europea ed importante partner della Turchia, è spettato l’ingrato ma necessario compito di rispondere alle pretese di Ankara: sulla scia delle dichiarazioni di Juncker, contrario al piano italiano di finanziamento per la Turchia ed i Paesi di partenza degli immigrati, il “Migrant compact” la Germania ha suggerito di tassare la benzina per finanziare una risposta europea – e solo europea – all’emergenza immigrazione. Si può subito comprendere che la critica tedesca al pacchetto proposto da Renzi non è soltanto rivolta a Roma, ma è anche un avvertimento velato ai turchi: mettere l’Europa di fronte ad altri diktat potrebbe compromettere anziché rafforzare la posizione di Ankara di fronte all’Europa che conta, cioè nelle cancellerie di Parigi e Berlino. Un’Europa ostile potrebbe essere il primo segno di cedimento per la seconda fase del neo-ottomanesimo, nata già “zoppa” a causa dell’intervento russo in Siria e della comparsa dei curdi come interlocutori privilegiati anche di una parte dell’Occidente. Del resto i peshmerga sono il “ponte” tra la linea statunitense e quella russa di gestione della crisi siriano-irachena e del Levante più in generale. Coniugando tutti questi fattori è chiaro che Erdogan sarebbe costretto a fare dei “salti mortali” per portare a casa un risultato che in patria non possa essere contestato. Dopotutto per compensare gli effetti negativi del giro di vite antidemocratico interno, Erdogan è quasi costretto ad ottenere successi all’estero. Continuare a sventolare la bandiera del nazionalismo turco (declinato in salsa islamica) servirebbe a poco senza il raggiungimento degli obiettivi prima elencati.