– a cura di Luisa Iannelli – Ci sono giornate, come quella odierna, fatte per ricordare, non già perché il ricordo sia un sentimento a fasi alterne, ma perché il significato di alcuni accadimenti non può prescindere dalla commozione, dal lutto, dalla consapevolezza e dal desiderio di raccontare anche a chi ha la fortuna di vivere un mondo diverso.
Era una mattina di lavoro come tante altre, quella dell’8 agosto di sessant’anni fa, nella miniera di carbone del “Bois du Cazier” a Marcinelle, sobborgo operaio di Charleroi in Belgio; una mattina in cui tanti nostri connazionali si inabissavano nella viscere della terra in cerca di carbone e di fortuna. Un lavoro duro quello del minatore, un lavoro che, nella maggior parte dei casi, i proprietari di quella ricchezza si rifiutavano di svolgere e che veniva affidata alla manovalanza proveniente dall’Italia in ripresa economica dopo le devastazioni della guerra.
Quella mattina, come sempre, centinaia di uomini che avevano lasciato le loro giovani mogli – poco più che ventenni – a casa, al paesello, stavano faticando nella precarietà di una miniera vecchia di oltre cento anni, in condizioni di sicurezza pressoché nulle, conoscendo a stento la lingua del luogo, per regalare proprio a quelle mogli e ai figli in arrivo la speranza di un futuro diverso.
Quella, purtroppo, non era una mattina come le altre, quella resterà per sempre la mattina in cui trovarono la morte mentre sognavano un futuro migliore. 262 minatori, martiri indotti, morti d’emigrazione, morti di lavoro e di speranze, morti con il sogno in tasca di rimpatriare il prima possibile sfuggendo ad una realtà opprimente e mortificante.
Di quei morti, che pesano come un macigno sulla storia del nostro Paese (Marcinelle è il terzo disastro per ordine di importanza nella storia del nostro lavoro all’estero), 136 erano italiani, più precisamente del mezzogiorno d’Italia (ben 40 delle vittime provenivano da Manoppello un piccolo paese abruzzese in provincia di Chieti), erano i nostri nonni, i nostri zii, i nostri vicini di casa partiti con la loro valigia di cartone in forza di una accordo bilaterale Italia – Belgio che prevedeva manodopera in cambio di carbone.
Merce di scambio, dunque, ecco cos’erano, costretti a vivere, come ebbe modo di dire un giovanissimo Moro, quell’occupazione come “abbrutente, inumana, svolta lontano dalla luce del sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore”. Partivano dal mezzogiorno d’Italia che stentava a riavviarsi dopo la guerra, arrivavano carichi di sogni e si trovavano a vivere in baracche poco più che approssimate. Non capivano la lingua e gli ordini, svolgevano lavori duri, pericolosi, si ammalavano e, spesso, le loro vite erano destinate ad interrompersi presto.
Di quella tragica mattina di agosto di sessant’anni fa oggi abbiamo il ricordo di un mondo che sembra lontano, non sappiamo neanche quali siano state le cause reali che indussero la morte di quelle persone a quasi mille metri di profondità.
Numerose sono state le richieste di familiari delle vittime, che dopo la beffa di poter riavere i corpi dei propri cari ben due settimane dopo i tragici fatti (tanto ci volle per riuscire a recuperali), non hanno avuto la soddisfazione di conoscere motivazioni e colpevoli. Errore umano, si è sempre detto, ma nessuno ha mai fatto notare perché non fossero garantite le più minime condizioni di sicurezza o perché i soccorsi giunsero con così ampio ritardo.
Dal 1 dicembre 2001, l’8 agosto è designata “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo” per informare e valorizzare il contributo sociale, culturale ed economico dei lavoratori italiani all’estero, ma forse questa giornata dovrebbe servire anche per ricordare che sfruttamento del lavoro, scarsa sicurezza, numero eccessivo di morti bianche, caporalato, sono fenomeni ancora attuali nell’Italia di oggi.
Oggi come sessant’anni fa c’è chi, costretto da una condizione di indigenza, cede i propri diritti di lavoratore in cambio di spiccioli; oggi, nella civilissima Italia del 2016 c’è chi sfrutta la manodopera a basso costo riducendo i lavoratori a poco più che schiavi; oggi c’è chi esce di casa la mattina non sapendo se la sera vi farà ritorno.
Il dolore di quella, come di altre tragedie, non può occupare le pagine dei giornali solo per la commozione estemporanea dei lettori ma dovrebbe animarne le coscienze civiche affinché restino effettivamente storie di un passato lontano.