Il termine ultimo fissato per la mezzanotte del 2 maggio 2016 si approssima inesorabilmente ed è pressoché impossibile, conseguentemente allo stallo delle trattative, raggiungere in questo breve lasso di tempo un accordo sul governo. Scadranno proprio lunedì, infatti, i due mesi trascorsi dalla votazione di marzo 2016 in cui Pedro Sanchez, segretario del Partito Socialista spagnolo, non ha ottenuto la fiducia dal Congreso de los Diputados: né Pablo Iglesias, già europarlamentare e professore di Scienza Politiche all’Università Complutense di Madrid e leader di Podemos – il partito in grado di rivitalizzare l’identità dell’estrema sinistra iberica – né Mariano Rajoy, Primo Ministro uscente e capo del Partito Popolare, hanno accettato di formare un governo in coalizione con il PSOE di Sanchez. Per la prima volta nella storia democratica della Spagna non si riesce a formare una maggioranza ed il Re Felipe VI ha concluso infruttuosamente l’iter di consultazione con i dirigenti dei partiti politici: presumibilmente, elezioni anticipate verranno indette per il 26 giugno.
Il Partido Popular aveva formalmente trionfato nelle elezioni dello scorso 20 dicembre, conquistando 123 seggi dei 350 complessivi con il 28,7% dei suffragi. Il popolarismo spagnolo, nonostante negli ultimi anni abbia riportato la Spagna su buoni ritmi di crescita economica, non è stato in grado di fornire adeguate risposte alle richieste dell’elettorato e rimane tutt’oggi in forte crisi; Rajoy, incapace di formare l’esecutivo, aveva rinunciato all’onere di guidare il Paese il 22 gennaio. Eppure il vero sconfitto può esser considerato il Partido Socialista Obrero Español: l’inettutidine di Pedro Sanchez, infatti, ha contribuito al fallimento del processo di trasformazione della propria forza politica in “liberal-socialista” – per certi versi post socialista – avviato dal predecessore Zapatero. L’ingresso in Parlamento dell’estrema sinistra di Podemos e del movimento laico-liberale di Destra moderata Ciudadanos aveva contribuito al tramonto del tradizionale bipartitismo spagnolo.
Storicamente, in conformità con l’Ordinamento Costituzionale e la legge elettorale in vigore dal 1979, con la suddivisione del paese in 52 circoscrizioni (alcune molto piccole), l’elevata soglia di sbarramento, il sistema di ripartizione proporzionale dei seggi secondo il metodo d’Hondt, solo le grandi formazioni partitiche classiche hanno avuto la possibilità di affermarsi ed entrare in Parlamento. Conseguentemente alla fortissima crisi economica che ha colpito la Spagna, proteste e rumorose manifestazioni – reiterate nel tempo – contribuirono all’affermazione di due fenomeni distinti: A) affermazione di nuove forze politiche catalizzatrici dei voti dell’elettorato disilluso, e/o esponenziale crescita dei consensi intorno a formazioni regionali; B) irreversibile crisi politica dei grandi partiti monopolizzatori delle elezioni nazionali. Bipolarismo, stabilità e governabilità erano caratteristiche imprescindibili del sistema partitico iberico. Appunto, erano. Perché secondo analisti e politologi, le elezioni di giugno potrebbero avere un esito simile a quelle di dicembre consegnando nuovamente un Parlamento estremamente frammentato ed impossibilitato a formare una maggioranza.
I giochi prenderanno il via il 10 giugno 2016, con l’inizio delle campagne elettorali.