La Russia ha sostanzialmente blindato la propria posizione nel Levante con le due basi di Tartus e Lattakia ma l’unica garanzia che il Cremlino ha per continuare a dire la sua nel Mediterraneo è la presenza ben salda di Assad sul ponte di comando a Damasco. Questa situazione ha paradossalmente unito gli schieramenti “interventista” ed “isolazionista” a Washington; con i primi intenzionati a non concedere nulla a Mosca al di fuori del suo storico “giardino di casa” ed i secondi che vorrebbero mantenere almeno gli equilibri esistenti prima di accettare la diminuzione dell’impegno statunitense nel mondo. Dunque i risultati raggiunti da Putin in Siria non sono accettabili e per continuare qualunque negoziato dalla Casa Bianca pretenderanno almeno alcune concessioni da parte dei russi. Trump ha scaricato su Obama tutte le colpe dell’incandescente situazione siriana facendo balenare l’idea che gli USA siano disposti ad intervenire unilateralmente contro Assad; in questa presa di posizione sta l’essenza del grande bluff che la diplomazia a stelle e strisce ha messo in piedi per riaprire la partita al tavolo delle trattative. Nessuno sano di mente si sognerebbe di mettere boots on the ground in Siria a due passi dalle forze russo-iraniane, però Trump ha voluto mettere in chiaro alcune cose all’interno della propria amministrazione e con l’opinione pubblica americana prima di continuare a negoziare.
Un’amministrazione accusata di essere filo-russa che si presenta a negoziare a capo chino con la Russia non avrebbe credibilità e partirebbe da una posizione di debolezza cronica. Al contrario, con la rimozione di Flinn e Bannon (i più convinti sostenitori di un’intesa con Mosca), e le parole di Tillerson, la Casa Bianca ha “ricostruito” la propria immagine. Dunque parole grosse ad uso e consumo della politica statunitense e solo in seconda battuta rivolte alla Russia. L’obiettivo è molto semplice, “riportare indietro le lancette” del negoziato cancellando politicamente la vittoria militare dello schieramento nemico e l’unico modo per fare questo è ridurre Assad ad “oggetto” della trattativa non riconoscendogli quell’etichetta di “realtà politica” che, loro malgrado, le diplomazie di Gran Bretagna e Francia gli avevano ultimamente affibbiato. Washington non ha alcuna intenzione di trattare direttamente con Bashar al-Assad perché ritiene che sia solo un burattino tenuto in piedi e manovrato dalle abili mani della diplomazia moscovita.
La stessa bozza di risoluzione presentata in Consiglio di Sicurezza ONU da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia (bocciata dalla Russia) per costringere Assad a collaborare con l’indagine sulla strage di Idlib è stato solo un modo come un altro per mettere all’angolo il presidente siriano che è già stato bollato come “colpevole”; questo non perché si abbiano prove schiaccianti, ma perché dipingere Assad come un mostro garantisce agli occidentali la possibilità di riaprire le trattative da posizione meno compromessa. Ridimensionare Assad, ridimensionare Mosca, avere qualcosa da dire prima del crollo definitivo dell’opposizione. Questo è l’imperativo per la strategia statunitense in Siria che se a parole risulta essere “offensiva”, in realtà è una “difensiva elastica”. Ma una cosa è chiara e non deve stupire: finché Assad avrà le spalle coperte dalla Russia, sarà impossibile detronizzarlo e questo alla Casa Bianca lo sanno bene. L’obiettivo a breve termine è quello di limitare i danni, non invertire il corso della guerra che sembra ormai segnato.