Monsignor Krysztof Charamsa, 43 anni nella foto col suo compagno.
– a cura di Francesco Severa – Krzysztof Charamsa è un sacerdote. E’ un teologo e lavora per la Congregazione per la Dottrina della Fede, l’organo che coadiuva il Papa per le questioni teologiche. Ha deciso, in un momento fondamentale per la vita della Chiesa, il giorno prima dell’apertura del Sinodo sulla famiglia, di dichiarare, urbi et orbi, dalle colonne del Corriere della Sera, la sua omosessualità e di avere un compagno.
Le reazioni in Vaticano sono state abbastanza prevedibili: sarà rimosso dai suoi incarichi; fuori però dai Sacri Palazzi la lettura data a quanto successo, forse interpretando bene le intenzioni dell’autore, è stata alquanto strumentale; strumentale ad una certa visione che si ha oggi della Chiesa come di una istituzione obsoleta, che è indietro rispetto all’orologio della storia secondo qualcuno di cinquanta, secondo altri di duecento anni addirittura. Una Chiesa che deve espiare la colpa di non essersi conformata, almeno fin’ora, alla communis opinio del nostro secolo. Quando oggi si parla di Chiesa si tende sempre a guardarla con i canoni della politica e della società, rischiando quindi a volte di distorcere ciò che al contrario a chi ha fede risulta chiaro. E’ un po’ quello che disse Benedetto XVI durante la sua famosa omelia nella cattedrale di San Patrizio, a New York nel 2008, quando paragonò le finestre istoriate della cattedrale gotica, che da fuori sembrano tetre e scure, ma all’interno prendono vita riflettendo la luce, alla Chiesa, che solo dall’interno “dell’esperienza di fede e di vita ecclesiale la vediamo così come è veramente”. Per un cattolico il problema di Charamsa non è la sua omosessualità. E’ il suo essersi così platealmente posto in contrasto con la dottrina che era chiamato a difendere. Avere fede per un cattolico è anche riconoscersi in una tradizione che è la garanzia di questa fede. Uno spicchio di verità che ci viene offerto. E quella tradizione, quel “depositum fidei”, per quanto possa sembrare a volte vecchio, stantio, non al passo con i tempi, come se bastasse lo scorrere del tempo a migliorare i costumi degli uomini, è per un cattolico sempre valido e sempre nuovo. Dice Chesterton “ Levo in alto la mia leggenda preistorica a sfidare tutta la vostra storia”. E’ in questa dottrina che si realizza la nostra fede, che è fatta per l’uomo. Allora quando Charamsa dice, testualmente, che “l’astinenaza totale dalla vita d’amore è disumana”, – anche se bisognerebbe capire cosa si intende per vita d’amore – è come se affermasse che è disumano ciò che la Chiesa per millenni ha insegnato riguardo la castità dei sacredoti. E’ evidente che vi è un’incompatibilità assoluta tra ciò che dice e quello che era chiamato a difendere. Di tutto questo però nel nostro mondo schiavo della telecrazia, passa solo un messaggio discriminatorio che la Chiesa porterebbe avanti; messaggio che purtroppo, per il compiacimento di qualcuno, viene troppe volte usato a fini politici. E’ quello che ha denunciato qualche tempo fa Angelo Scola, il successore di Borromeo e Schuster sulla cattedra di Milano, dalle stesse colonne del Corriere della Sera scelte da Charamsa. L’ “Uso che si fa di questo papato” su due differenti versanti: si descrive il Papa come devoto marxista o per nominarlo leader del progressismo militante o per farne la caricatura di un anti-Papa. Quando al contrario basterebbe dare una letta a quel meraviglioso capolavoro che sono gli “Esercizi Spirituali” di Ignazio di Loyola per capire come il Papa gesuita ne faccia la sua bussola quotidiana.