– A cura di Francesco Severa – Quando si decide di usare una precisa e selezionata parola è chiaro che ad essa si vuole dare uno preciso e selezionato significato, quello e nessun altro. Ciò che non è però da sottovalutare è il fatto che ad una parola difficilmente corrisponde un solo ed univoco significato e dunque, anche se ogni parola conserva sempre un suo legame con qualche accidenti della realtà, sta alla nostra personale volontà scegliere quale senso affidare ad essa in quel tale caso concreto. Facile dunque equivocare. Questioni di linguaggio potremmo dire. Non è certo riduttivo spiegare in questi termini quattro anni di “Mafia Capitale”, cioè quattro anni di speculazioni capaci di incatenare e soffocare in questo nostro paese il dibattito pubblico, quello indecente e da osteria. Mi spiego meglio. Tutto ruota intorno al senso che affidiamo alla parola “mafia”, vocabolo con un forte peso specifico perché evocativo di troppe vicende. “Mafia” innanzitutto ha un significato giuridico, ben definito dall’articolo 416 bis, rubricato “associazioni di tipo mafioso anche straniere”. La Procura di Pignatone ha tentato di qualificare le malefatte criminali di Buzzi e Carminati secondo questo specifico nomen iuris, un po’ per convinzione, un po’ certo per usufruire dei più pervasivi strumenti di indagine che tale qualificazione permette, un po’ forse – qui facciamo i malevoli – perché ben consapevole di quali conseguenze in fatto di comunicazione l’uso di un termine del genere può dare. Il problema è che troppi dimenticano che la Pubblica Accusa non ha il compito di rivelare verità assolute, ma di svolgere indagini che le permettano di raccogliere prove idonee a sostenere l’accusa in giudizio, col rischio assai concreto di essere smentiti. Cosa che è puntualmente accaduta quando la decima sezione penale del tribunale di Roma, guidata dal Presidente Rosaria Ianniello, ha riqualificato i reati come semplice associazione a delinquere, nello stupore insensato dei creduloni incalliti. Ma sembra che in questa nostra Italia a credere nello stato di diritto siamo rimasti in pochi. Ed ecco che arriviamo al secondo possibile significato della parola “mafia”, quello da avanspettacolo. Quello usato dalla politica manettara che, non avendo cuore e contenuti, cerca di farsi votare puntando il dito verso un nemico invisibile, unica ragione della propria sopravvivenza. Raggi docet – basta guardare la sua faccia dopo la lettura della sentenza. Quello usato dai perbenisti di maniera, quelli che guardano il mondo dall’alto del loro individualismo cieco, sentenziando inutili manicheismi. Quelli alla Bonito Liva, che, dimenticando che la nostra Costituzione riconosce il diritto di difesa nel processo persino a uomini malevoli come lui, ha attaccato in una trasmissione televisiva l’avvocato di Carminati perché a suo dire difenderebbe “mafiosi” solo per soldi, come se il critico d’arte lui lo facesse per la gloria patria. E’ quello usato dai “giornaloni” nostrani, che considerano i loro lettori creduloni da coglioneggiare e non gente senziente, curiosa di capire il mondo. E’ questo infine il significato usato da quella inconsistente nebulosa che è l’antimafia da salotto, nel senso che è pronta a combattere il fenomeno mafioso in pantofole dal divano di casa. Ecco tutto questo tradisce l’ultimo e più reale senso della parola “mafia”. Quello che intende il sangue, quello che intende la cultura della morte, quello che intende il tritolo, le bombe. Quello che soprattutto ci da la reale dimensione di quale odioso e patologico fenomeno abbiano combattuto tanti Servitori dello Stato. Martiri che hanno sacrificato la vita, sicuri che il marcio che ci circonda si combatte in trincea, con l’amore di una testimonianza coraggiosa. Soprattutto per non tradire loro dobbiamo avere la fermezza di dire che l’ordinaria e criminale corruzione che logora la nostra amata Roma non è però Mafia.