Ci troviamo di fronte ad un tipo nuovo di terrorismo islamico, che non punta tanto a colpire i “simboli” dell’Occidente – ad esempio le Torri Gemelle – quanto a stravolgere la vita quotidiana delle persone attaccando, ad esempio, un comune ristorante cambogiano al centro di Parigi. Il “post-qaedismo” è tatticamente e strategicamente più avanzato rispetto al classico islamismo militante. Punta a sfruttare anche i disagi degli immigrati di seconda o terza generazione e smette di essere un fenomeno esclusivamente religioso. Il rigetto della società occidentale in cui i potenziali terroristi sono nati e cresciuti amalgamandosi, almeno esteriormente ad essa, va così a legarsi a doppio filo con la propaganda martellante dell’Islam radicale.
E’ per questo che la frattura tra terrorismo tradizionale di matrice qaedista e quello del Califfato di Raqqa non può essere analizzata e contrastata solo tramite lo strumento militare. Necessita di risposte politiche adeguate anche all’interno delle Nazioni colpite. Se esiste un campo di battaglia tra le sabbie siriano-irachene, esiste anche un “fronte interno” nelle nostre città. Se abbiamo il nemico in casa, a poco servirà bombardare Raqqa o marciare su Mosul. A questo punto bisogna domandarsi se le istituzioni politiche occidentali possano combattere e vincere una guerra asimmetrica che sta assumendo dimensioni “totalizzanti” coinvolgendo anche la sfera psicologica delle popolazioni colpite. Proprio il coinvolgimento psicologico più o meno diretto dell’opinione pubblica genera opinioni contrastanti spalmate in una forbice che va dall’interventismo radicale (a tratti xenofobo) ad una sorta di inedia buonista incapace di prendere qualunque decisione pur di evitare tensioni.
Questo magma di parole rende ancora più difficile il lavoro dei decisori politici che devono rendere conto ad un elettorato sempre più diviso ed insicuro. Si potrebbe azzardare che la democrazia con i suoi valori, per come l’abbiamo conosciuta fino ad ora, sia stata scardinata venerdì sera al teatro Bataclan. I provvedimenti forti presi da Hollande e la richiesta arrivata dall’Eliseo di prorogare per tre mesi lo stato d’emergenza e di riformare la Costituzione per garantire maggiore sicurezza alla Nazione sono provvedimenti che hanno scritto la parola “fine” anche alla parabola del modello integrazionista transalpino. Lo stato d’emergenza concede alle autorità poteri straordinari, non sempre in linea con i diritti democratici, ma questa è la reazione giusta per rispondere anche sul piano interno alla minaccia del Califfato.
La nuova Union Sacrée (comprendente perfino il Front National) e la reazione patriottico-militare dei francesi sono state applaudite dalla gran parte dell’opinione pubblica europea. Resta faticoso credere che un’Europa “pantofolaia”, quella della società “obesa e virtuale”, possa accettare le dure logiche di un conflitto. Si plaude alla nascita della Task Force La Fayette formata da volontari francesi per combattere l’ISIS ma non si è disposti a fare la stessa cosa nel proprio Paese perché “armiamoci e partite” è diventato il motto più in voga nell’Unione. Oltre alla guerra contro lo Stato islamico l’Europa dovrebbe combatterne un’altra contro sé stessa, contro i suoi valori “nati in provetta” – l’Europa “Potenza civile” ad esempio – e privi di una base storica fondata. Se il Vecchio continente sarà disposto a confrontarsi con il suo recente passato ammettendo i propri errori, se saremo capaci per una volta di essere Europa (e non Unione europea), allora da questa guerra epocale usciremo vincitori non solo sul piano militare ma anche su quelli politico-ideologico e culturale. L’Europa ha armi più potenti e sofisticate dello Stato islamico ma gli europei hanno la stessa ferrea volontà dei kamikaze e degli strateghi del Califfato? Dalla risposta a questa domanda dipende il nostro futuro, non è un’esagerazione ma l’amara constatazione dei fatti.