Ad un anno dallo scoppio della grave crisi di migranti del 2015, che vide l’arrivo di oltre 1 milioni di persone in Europa (portando alla costruzione da parte di Budapest della barriera di filo spinato al confine serba, poi prolungata a quella croata) non va dimenticato che Orbán si dimostrò fin da subito strenuo oppositore della politica comunitaria di ripartizione proporzionale in tutti gli stati d’Europa dei migranti – circa 1294 spettanti a Budapest; un referendum, dunque, secondo il leader magiaro, sull’indipendenza del Paese, sul diritto esclusivo degli ungheresi di scegliere con chi convivere, sull’ingerenza negli affari interni degli euro-burocrati di Bruxelles. Che l’Ungheria, e consequenzialmente il suo Primo Ministro Viktor Orbán – capo del partito Fidesz – dunque siano i maggiori antagonisti interni con cui l’Unione Europea ha a che fare, è cosa ben nota. Eppure Orbán non è aprioristicamente contro l’idea di Europa: può esser definito europeo “inquieto”, ma non può assolutamente esser tacciato di anti-europeismo. Un’Europa diversa, dalle forti identità nazionali e dall’omogeneità etnica, capace di riscoprire le incontrovertibili radici cristiane. Non è, chi più chi meno, quello che vorremmo tutti? Non a caso, proprio il Primo Ministro magiaro è a favore del rilancio del progetto di un esercito europeo.
Il piano del premier nazional-conservatore è, inevitabilmente, di ampia portata. Se, infatti, la validità giuridica del referendum rimane oscura (dato che si voterà sugli effetti dei trattati internazionali), la prevedibile vittoria del “no” porterebbe a plurime conseguenze: internamente, rinsalderebbe la legittimità di Orbán in vista delle elezioni politiche del 2018, evidenziando la frammentarietà dell’opposizione e distraendo il paese dalle gravi problematiche economiche intestine. Internazionalmente, rafforzerebbe l’asse del “Gruppo di Visegrad” – organo di cooperazione regionale tra Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia -, configurante sempre più un’alleanza del fronte di fermezza dell’Europa Orientale contro l’Unione europea e le politiche nei riguardi dei profughi; e, soprattutto, servirebbe per porsi alla guida di quel movimento euroscettico che sembra aver individuato nello strumento referendario lo strumento ideale per apportare colpi – talvolta letali – a Bruxelles.
Tempi duri attendono il Vecchio Continente. Il referendum ungherese, primo appuntamento elettorale, potrebbe causare un grave strappo che alimenti l’inarrestabile ostilità nei confronti dell’euro-burocrazia. Dopo di che, sarà il turno delle presidenziali austriache – già viziate -, del referendum italiano e presumibilmente di ulteriori votazioni in Spagna; ed il 2017 non sarà da meno, con gli appuntamenti alle urne per Olanda, Francia – il Front National sembra poter arrivare al ballottaggio – e Germania, dove Alternative für Deutschland vanta il 15% sei suffragi. I movimenti populisti dunque, oltre ad avanzare, sembrano dettare anche l’agenda europea. L’UE sarà in grado di reagire o attenderà passivamente e preoccupata che i cittadini dicano la loro?
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