– di Filippo Del Monte – Sulla morte di Giulio Regeni ci sono pochi punti chiari e moltissimi lati oscuri. Non si è ancora arrivati alla soluzione del caso eppure tra i circoli italiani di “addetti ai lavori” ed esperti di Politica internazionale già si parla di necessari cambiamenti nei rapporti italo – egiziani e più in generale nella nostra strategia mediterranea. Andiamo per ordine. L’Egitto è stato uno dei primi Paesi attraversati dalla cosiddetta “primavera araba”, uno dei primi a sognare una ricostruzione sociale dalle fondamenta, salvo rendersi conto che le promesse di “rinnovamento” del movimento rivoluzionario altro non erano che slogan ad uso e consumo dell’Islam radicale della Fratellanza. Il fallito esperimento governativo di Morsi ha crudamente evidenziato le deficienze strutturali dell’Egitto. In una situazione del genere la strada rivoluzionaria non era nuovamente percorribile, chi aveva partecipato alle proteste di Piazza Tahrir era politicamente delegittimato dopo aver appoggiato la svolta islamista della Fratellanza. L’unico modo per riportare l’Egitto alla normalità era rivolgersi di nuovo ai militari che – pur con tutti i loro limiti – hanno ridato al Cairo stabilità.
Chi vede nella presidenza di al-Sisi un ritorno al passato ha sbagliato analisi. Il Cairo ha infatti rafforzato il suo impegno militare nel Sinai e sta tentando, con alterne vicende, di collaborare con l’Occidente per la stabilizzazione della Libia. Certo, sul caso libico gli egiziani hanno interessi forti, puntano a mettere un’ipoteca sulla Cirenaica, ma anche l’Italia avrebbe i propri interessi così come la Francia o le Potenze sunnite, perciò la soluzione passa necessariamente per la collaborazione e sarebbe preferibile non identificare nel Cairo un potenziale nemico. Una linea politico-diplomatica deleteria, legata alle pressioni esercitate da USA ed Europa affinché al-Sisi si mantenga sulle “linee tracciate a Piazza Tahrir nel 2011”, non ha portato ad altro se non ad un avvicinamento pericoloso del governo egiziano a Mosca. Perdere per strada la prima Potenza del Nord Africa e favorire la penetrazione russa nei pressi di Suez non assomiglia proprio alla strategia utile a difendere le prerogative occidentali nel Mediterraneo. Mubarak avrebbe accettato le condizioni poste da Washington e dai suoi “sensali” europei, così come Morsi, ma al-Sisi ha piani diversi, non è semplicemente il garante della stabilità politica egiziana, ha anche una “visione” del nuovo Egitto da non sottovalutare.
La sintesi ideologica tra una forma depurata di “nasserismo” e l’Islam politico (nonostante tale formula non sia chiara), adatta a rappresentare l’essenza profonda dell’Egitto, non è stata ideata dall’opposizione ma da al-Sisi. Uno Stato che rafforza la sua componente laica, aperto agli investimenti esteri – non ultimi quelli sul Canale di Suez – , che coraggiosamente ha tagliato i sussidi per l’acquisto di petrolio e che ha optato per una rapida modernizzazione delle infrastrutture non può essere considerato arretrato. Chi si oppone a questo rinnovamento sono i circoli legati all’islamismo – che in Europa è stato confuso con l’Islam moderato nel periodo dell’infatuazione per tutto ciò che dalla fucina di Piazza Tahrir usciva, Morsi compreso – ed alla sinistra dissidente che non è mai andata a braccetto con la visione di nazionalismo arabo dei militari . Per quanti dicono che Roma dovrebbe rivedere la sua partnership con il Cairo per il mancato rispetto dei diritti umani, sarebbe opportuno ricordare che allo stato attuale l’Egitto è un Paese in guerra e che non ha mai avuto una storia alle spalle di “democrazia” (parola con cui troppo spesso noi europei ci riempiamo la bocca scambiandola forse per “stabilità”). Certo, il caso Regeni è un losco affare ed è doveroso fare luce su di esso, però da qui a dire che per questo l’Italia dovrebbe rivedere la sua politica con l’Egitto ce ne passa.
Più in generale si è parlato di ricalibrare la nostra strategia mediterranea seguendo come “stella polare” il rispetto dei diritti umani. E’ vero, l’Europa si fonda sui diritti e sulla loro difesa, ma in tempi difficili, quando il nostro stesso modello di vita è messo in pericolo, si può abbandonare la realpolitik per un non meglio definito “idealismo” da quattro soldi? Quando si svilisce il realismo rendendolo strumento dei “cattivi” di turno non ci si trova dinanzi ad una proposta seria di cambiamento ma ad un utilizzo strumentale delle vicende internazionali per fini interni più o meno celati. E poi, è risaputo che per controllare meglio l’evolversi di una situazione è preferibile restarci invischiati. Una “rappresaglia” contro l’Egitto o contro qualunque altro Paese mediterraneo la cui politica sui diritti umani lasci a desiderare non porterebbe quegli Stati a “democratizzarsi” ma solo danni a Roma. Dunque in materia di diritti umani è opportuno intervenire seriamente e coerentemente con i propri interessi politici, economici e culturali, ma continuare a far finta di poter dettare condizioni da una posizione di forza – che da qualche tempo è solo un miraggio – è pura inettitudine. Un’ultima cosa da non dimenticare: quelli che chiedono di tagliare i ponti con al-Sisi sono gli stessi che protestavano contro l’intervento in Libia del 2011, eppure Gheddafi, che paladino dei diritti umani non è mai stato, si trovava in una posizione ben peggiore del presidente egiziano.