– A cura di Francesco Severa – “A furia e’ ricere è ccos’e niente, siamo diventate du’ ccos’e niente”. E’ questa frase di Peppino Girella, interpretato nel 1963 dal genio di quell’artista di popolo che è stato Eduardo de Filippo, la risposta piccata di Anna Maria Carloni, deputata del Partito Democratico e moglie di Don Antonio Bassolino, già Viceré partenopeo, quando le si chiede di commentare le esternazioni sulle primarie PD di Napoli rilasciate da Matteo Orfini, presidente del suo stesso partito, il quale ha tentato di derubricare a “singole irregolarità da accertare” quei fatti che invece i video di fanpage.it sembrano confermare essere un vero e proprio tentativo di orientare il voto, imbucando sistematicamente nel seggio persone che, più che dall’euforia della partecipazione democratica, sembrano ispirate dall’insistente richiesta di qualche capetto locale. Ora, potremmo anche comprendere come non ci si possa certo stupire per qualche zelante capopopolo che paga ai suoi l’obolo da donare al partito in questo nostro paese oramai assuefatto all’idea che delle elezioni primarie senza i diligentissimi membri della comunità cinese italica in fila ai gazebo rischino di essere invalide; ma andare in televisione a vantarsi di essere l’unica forza politica che sceglie democraticamente – da sottolineare questo avverbio – i propri candidati è qualcosa che richiede coraggio e anche, dovremmo dire, un pizzico di lucida follia. Ancora più folle, quasi dissacrante, è usare il nobile termine primarie, che rimanda all’epico scontro, ideale e di popolo, che ogni quattro anni si consuma tra gli Appalachi e le Montagne Rocciose per la scelta di chi dovrà correre per le presidenziali americane, per definire al contrario una sporca guerra di correnti trasferita tra i gazebo in piazza. Certo troppo semplice, si potrebbe dire, sparare su un partito che sta vivendo in maniera traumatica la nuova leadership, accentratrice e spudorata, di Matteo Renzi. Il problema sta nel fatto che anche a guardare le altre forze politiche è difficile non pensare che qualcuno ci stia prendendo per fessi. Saremmo così fessi da dover credere che democrazia significhi far scegliere il candidato sindaco di una grande città da qualche centinaio di internauti sulla base di una lista di sconosciuti, corredata da curriculum e video grotteschi. Saranno anche, come dicono gli stessi grillini, “cittadini onesti” chiamati a “scegliere altri cittadini onesti”, ma, per quanto si possa essere convinti della genialità dell’uomo comune, con quale coraggio si può affidare a qualche peculiare personaggio, preso dal peggio del luogo-comunismo del web, una responsabilità pubblica dopo aver visto quali sfaceli ha significato per il paese mandare in parlamento una banda di dilettanti allo sbaraglio? Saremmo poi così fessi da dover credere che significhi democrazia organizzare qualche banchetto per le strade di Roma al fine di ratificare scelte già prese e imporle, al suon di qualche migliaio di elettori, agli altri partiti della coalizione. Non si può che provare infinita tristezza nel vedere che al posto di quel Silvio guerriero, che con forza urlava l’inutilità delle primarie difronte il carisma di un leader che da solo leggeva le voglie del suo popolo senza ricorrere a superflue consultazioni, oggi vi è un Silvio stanco, costretto a dimostrare la sua forza ricorrendo, quasi fosse un rito catartico, a qualche gazebo a cui rari nantes si accostano per testimoniare, con poco entusiasmo, che alla fine Bertolaso non è una scelta troppo sbagliata. Esiste un errore di fondo in tutta questa frenetica corsa per dimostrare chi è più democratico. E’ l’errore di pensare alla partecipazione dei cittadini non come ad un necessario momento di condivisione, ascolto e confronto di idee, utile a comprendere quale sia l’umore della base e quale sia l’indirizzo politico che voglia prendere, ma come un modo per camuffare le lotte interne ad un partito o ad una coalizione, ovvero per dissimulare l’incapacità e la viltà di una politica che non sa scegliere. Un mezzo nobile per coprire l’indicibile: bella furbata. Ma dov’è in tutto questo la credibilità della politica? Si rischia, nonostante la buona volontà di coinvolgere i cittadini, seppur fintamente, nei processi decisionali, di avere l’effetto contrario e di vedere ai gazebo solo l’apatico affannarsi di qualche militante fidelizzato, piuttosto che l’entusiasmo coinvolgente di passanti galvanizzati da ideali e programmi. Ecco allora il risultato meta-teatrale che a votare per i politici rimangono soltanto gli aspiranti politici. E’ questa la più grande distorsione della democrazia: pensare che i cittadini siano dei fessi da raggirare e manovrare e non la scaturigine prima di qualsiasi legittimazione politica. Allora se, come diceva Chesterton, “governare in base ai principi del dibattito democratico è come innamorarsi, non come dedicarsi alla poesia”; visto che innamorarsi, come sappiamo, richiede grande coraggio e una dose non piccola di convinzione; assodato ormai che la convinzione manca; finiamola di illudere i cittadini, ad ogni tornata elettorale, del fatto che andando in piazza a votare realmente possano interferire nei processi decisionali per le candidature. Si eviterebbero un po’ di figuracce e riaprendo congressi e segreterie si dimostrerebbe, forse, che la politica ha ancora il coraggio di prendersi delle responsabilità, il coraggio di metterci la faccia e soprattutto il coraggio di non vendere il suo pudore all’antipolitica sistematica.