-a cura di Luca Proietti Scorsoni- Dunque, un breve sunto delle puntate precedenti. Viviamo in un Paese dove trionfa il No: si pensi ai vari movimenti No Tav, No Dal Molin, No Tap, No Muos, No Ttip, No Triv e altri dinieghi vari. Un’opposizione, si badi bene, sia di natura concettuale – basta digitare su Google uno dei temi sopra menzionati per scoprire la discrepanza di risultati a favore di tesi contrarie – che fattuale in quanto, dalle Alpi a Lampedusa, s’è incancrenita l’ideologia del Nimby – acronimo inglese che sta a significare: “Non nel mio giardino” – in grado di rallentare, se non stoppare, qualunque realizzazione davvero funzionale per il bene pubblico. Parimenti l’Italia presenta una cronica dipendenza energetica dall’estero, con tutto quel che ne consegue in termini di costi economici e ritardi tecnologici. D’altronde se i rigassificatori giammai, i siti di stoccaggio nemmeno a parlarne, il nucleare è una bestemmia ed il carbone è buono purché nella calza, poi è difficile pianificare una politica energetica adoperando esclusivamente le fonti rinnovabili nella contezza che queste, al momento, non riescono affatto a compensare totalmente il fabbisogno di energia dello Stivale. Senza considerare inoltre tutti quei sussidi statali di cui hanno beneficiato pannelli solari, pale eoliche e non solo. Mi sono dimenticato qualcosa? Ah si: nel nostro sottosuolo – anche marino – ci sono importanti giacimenti di petrolio e gas. Così, tanto per dire. Ecco, svolto questo noioso, ma necessario, preambolo arrivo al punto. Il 17 aprile avrà luogo un referendum col quale si dovrà decidere se sia giusto o meno sfruttare i giacimenti esistenti entro le 12 miglia dalle coste marine fino al loro esaurimento. Nulla di più nulla di meno. Quanti sono attualmente gli impianti coinvolti da tale scelta? 48. Di cui 9 a petrolio e 39 a metano, ovvero l’idrocarburo meno nocivo. Volete saperne un’altra? Il referendum è un pretesto. In realtà ciò che davvero conta è chi, tra Stato e Regioni, deve avere l’ultima parola in materia energetica. E questo dopo che la disciplina in oggetto divenne di competenza concorrente a causa di un federalismo provinciale e raffazzonato fuoriuscito dalla modifica del Titolo V della Costituzione. Ebbene, a fronte di tutto ciò mi chiedo e vi chiedo: ma sono io che son divenuto un ecologista tout-court oppure il mio partito – leggasi Forza Italia – si è tramuto ad un tratto in un organismo geneticamente modificato? Tertium non datur. Chi ancora sta leggendo probabilmente lo sa già: il movimento azzurro ha assunto una posizione ufficiale, ed è quella per il Si, ovvero per bloccare tutto. Che poi questo tutto non sia tantissimo in termini reali non importa, il cambio di rotta è deciso. Non solo. A motivare questa scelta, che di liberale in realtà non ha molto (anzi!), vengono esposte perfino 5 tesi allegate al volantino “accoppa trivelle”. Provo a sintetizzarle in tre punti: la tutela ambientale, il rischio ecatombe economica e l’impossibilità di diversificare gli investimenti sono di fatto i tre assi sui quali si impernia l’intera narrazione forzista. Ora, senza scomodare alcuni filosofi conservatori come il grande Roger Scruton, tentiamo di permeare tali convinzioni, apparentemente granitiche, recuperando quel senso del limite troppe volte assente dal dibattito contemporaneo. Inizio con la tutela ambientale. Di fatto l’ho già accennato qualche riga sopra, e comunque un’ulteriore chiosa è d’obbligo. Non da parte mia però, ma di Rosa Filippini di Amici della Terra. Qualche giorno fa, su Il Messaggero, l’attivista verde ha pronunciato le seguenti parole: “Se dovesse prevalere il SI aumenterebbe il traffico di petroliere nel Mediterraneo. Ricordo a tal proposito che negli ultimi anni ci sono stati 27 incidenti con sversamento. Ed in tutti i casi si è trattato di petroliere. Le piattaforme che estraggono soprattutto gas, elemento non inquinante, esistono da trent’anni e non si è mai verificato un incidente”. In pratica: vale la pena far transitare centinaia di petroliere vicino ai nostri porti per un 10% di risorse energetiche che estraiamo al momento? Secondo aspetto: ecatombe economica. Dicono che, stante la situazione attuale, pesca e turismo italici andrebbero a ramengo. Ma davvero? Magari pochi ricordano che l’Italia è risorta ed ha goduto del boom, durante gli anni ’50 e ’60, grazie allo sviluppo del gas nell’Adriatico, proprio davanti al ravennate. Tradotto: costa romagnola, alias: uno dei luoghi estivi più frequentati dell’intera Europa. Sulla pesca credo sia più nociva la recente ridefinizione dei confini marittimi tra il nostro Paese e la Francia che altri fantasmi vagheggiati inutilmente. Giungiamo all’ultima questione: lo sfruttamento indiscriminato(?) dei fondali marini che impedirebbe una politica seria volta a realizzare un piano energetico basato sulle rinnovabili. Ora, a parte che l’estrazione di idrocarburi può e deve andare di pari passo con lo sviluppo delle rinnovabili, anche in considerazione del fatto che il mix energetico è la soluzione migliore sia in campo nazionale che europeo, quel che lascia perplessi sono i toni da pianificatori centralisti adottati nel documento di un movimento sedicente liberista. Come si può sostenere di spostare i lavoratori da un settore privato ad un altro senza le indicazioni provenienti dal mercato? Come si può essere così leggeri nell’ipotizzare l’intervento decisionista dello Stato nelle attività economiche umane? Non dico di conoscere a menadito l’intero catalogo della Liberilibri ma, in un’economia basata sul libero scambio, l’allocazione delle risorse e dei fattori produttivi dovrebbe essere una scelta ad uso esclusivo dei singoli operatori, non del Leviatano. Ancor di più se consideriamo l’opzione referendaria come un approccio demagogico a problemi davvero pregnanti per il nostro futuro. Insomma, il passaggio da trivellatori consapevoli a ignari trivellati è davvero assai breve. Spirito del ’94, torna tra di noi.