Richiesto da nove Regioni -Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise- questo referendum riguarda il rinnovo delle concessioni estrattive di gas e petrolio per i giacimenti entro le 12 miglia dalla costa italiana.
L’esito del referendum sarà valido solo se andranno a votare il 50% più uno degli aventi diritto al voto.
Il quesito pone:
“Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?
Il comma 17 del decreto legislativo 152/2006 stabilisce che sono vietate le nuove «attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi» entro le 12 miglia marine delle acque nazionali. E’ stabilito anche che gli impianti che esistono già entro questa fascia possono continuare la loro attività fino alla data di scadenza della concessione. Questa concessione può essere prorogata fino all’esaurimento del giacimento. Votare Sì significherebbe porre una data certa e non indeterminata affinché ai “titoli abilitativi già̀ rilasciati” per le perforazioni in mare sia posta una scadenza definita.
Il referendum riguarda 21 concessioni e nel caso dovesse vincere il Si gli impianti dovranno chiudere entro 5-10 anni cioè fino al termine delle concessioni senza possibilità di rinnovo.
Su 119 impianti presenti sul nostro territorio, 64 sono quelli interessati direttamente dal referendum.
A detta delle stesse Associazioni ambientaliste che sostengono il comitato promotore del referendum, riguardo un disastro ambientale -vedi Golfo del Messico 2010- non ci sono rischi anche se incidenti di minore entità dovuti a malfunzionamenti di uno degli impianti porterebbero ad alterare profondamente l’ambiente ed a danneggiare l’ecosistema marino, specie se si guarda alla morfologia del nostro mare -soprattutto nell’Adriatico- chiuso.
Quindi correre il rischio, specie riguardo alle limitate quantità di gas e petrolio presenti nei nostri mari, non è sopportabile.
Oltre al lato tecnico, il voto favorevole al referendum “No-Triv” rappresenta un “voto politico” per due ordini di motivi:
Primo dare al governo un segnale contrario all’ulteriore sfruttamento dei combustibili fossili e a favore di un maggior utilizzo di fonti energetiche alternative.
Secondo, “smascherare” il governo Renzi che con una dose di buonismo dà il contentino agli ecologisti dicendo che non si può trivellare entro le 12 miglia marine ma, dall’altro, mantiene in vita i permessi alle lobby petrolifere dando disponibilità a trivellare sine termine, ricavandone in termini di diritti sull’estrazione del petrolio il valore più basso al mondo ossia solo il 7 % di ciò che si estrae.
Questa svendita di sovranità territoriale ci riporta in medias res al polverone che è stato sollevato poco tempo fa su un presunto accordo tra Italia e Francia.
Tale accordo per la cessione di diverse miglia marine –per l’impianto di nuove trivelle- molto pescose nella zona al nord della Sardegna tra Ventimiglia e Mentone, ha suscitato scandalo in quanto firmato ma non ratificato (deve passare al vaglio del Parlamento) che rappresenta la volontà di questo governo di non difendere la sovranità territoriale e soprattutto non difendere un settore come quello ittico, fondamentale per le economie di molte regioni come la Sardegna.
Il governo Renzi, per chi ancora non lo avesse capito, ha dimostrato spesso la volontà di bypassare il Parlamento su questioni delicate come quelle di cui stiamo trattando e il referendum rappresenta uno strumento fondamentale nelle mani del cittadino per rispondere con fermezza e determinatezza ad alcune politiche che non difendono affatto la nostra sovranità.
La stessa scelta di mandare a votare i cittadini il 17 aprile e non accorpare il referendum al primo turno delle amministrative rappresenta la chiara volontà del governo di voler ostacolare il raggiungimento del quorum. In periodi di crisi come quello che viviamo, questo governo ha preferito far spendere centinaia di milioni di euro di soldi pubblici per non andare a intaccare quei poteri forti –al quale fa scudo- come le lobby del petrolio, che a buon bisogno finanziano le campagne elettorali.
Di fronte questo scenario i cittadini devono rendersi conto della potenza del voto che possono esprimere.
Nonostante tutti gli ostacoli che questo governo può mettere, è fondamentale esprimere un voto favorevole, che rappresenta la volontà di difendere le proprie sovranità politiche e nazionali e dunque dello stesso stato nazionale che, pur con i difetti che ha, rappresenta un argine al fenomeno della mondializzazione dell’economia.
Con una crisi sempre più forte della sovranità politica e territoriale a discapito della globalizzazione del mercato e della tecnica, dare vigore all’istituto referendario può essere una valida alternativa al tracollo degli istituti di rappresentanza e dunque della politica.