La senatrice Gambaro ha presentato il d.d.l. 2688 sulla prevenzione della manipolazione dell’informazione online.
È un testo che non mi vede d’accordo non perché non esista il problema ma perché “anziché favorire la libertà di espressione e di confronto, vero antidoto alle notizie false, si pensa un quadro repressivo, che al massimo provocherebbe un temuto chilling effect” come ha detto Giovanni Battista Gallus, avvocato esperto di legislazione su internet.
Le leggi sulla diffamazione esistono già: Internet non è un mondo misterioso.
Il problema tuttavia sta diventando drammatico.
Due persone su tre si informano sui social.
Bolle di spazi chiusi in cui i social media, attraverso subdoli algoritmi, ci spingono ad avere a che fare soltanto con utenti che la pensano come noi.
Internet sta veramente cambiando il modo in cui percepiamo la realtà, portandoci da un passato di notizie vere a un presente di fake news virali?
Il Pew Research Center dice di no: quando siamo su un social network incontriamo in maggioranza contenuti con cui siamo in disaccordo. Solo una minoranza dichiara di essere connessa con persone con mentalità simile.
Chi è sui social media utilizza più fonti differenziati per informarsi.
Gli istituti ci consegnano un quadro desolante nei riguardi della fiducia nelle istituzioni e nei media tradizionali.
La questione fondamentale è ridare autorevolezza ai media e spingere i cittadini a parlare di ciò che si conosce, senza occuparsi di qualsiasi cosa in maniera strampalata.
Molti chiedono a Facebook e Google di monitorare i contenuti pubblicati.
Alcuni post vengono oscurati immediatamente, altri no.
Ma il fatto che aziende private e società specializzate possano diventare i centri di selezione del vero e del falso, mi spaventa.
Dietro il ruolo “oracolare” dei fact-checker dobbiamo ricordare che si celano uomini e donne con i propri pregiudizi. Appaltare alle corporations tale potere di “prevenzione della menzogna” rappresenta pur sempre un controllo etero-diretto, con ricadute enormi sulla libertà informativa.
Una ricerca di Stanford ha mostrato come i giovani fossero capaci di usare Instagram o Twitter ma non di riuscire a distinguere l’attendibilità delle notizie. Discorso da ampliare al pubblico adulto, anche più istruito. Fino agli insegnanti stessi.
Internet permette accesso a un numero incredibile di informazioni con fact-checking.
E’ una questione culturale: incentivare l’alfabetizzazione mediatica, coltivando un sereno e pacato scetticismo chiedendosi sempre “sarà vero?”.
Così cresce una democrazia matura e autorevole.