A cura di Francesco Severa – Il momento più toccante e poderoso nella lunga liturgia della notte di Pasqua è forse l’irrompere del cero, appena acceso al fuoco nuovo, nella chiesa tenuta al buio. La luce che promana da quella piccola fiammella, a bruciare quel profumato nettare che è la cera, è un debole sussulto, quasi una scintilla, che però diviene faro per chi vaga nella notte. La notte di questa nostra epoca è di un cupo buio. Ma quella scintilla non è sparita: è nel cuore di ognuno di noi. Siamo amati e lo siamo una volta per sempre! Come?
«Sono io!». Nel testo della Passione di Gesù che è nel Vangelo di Giovanni, queste parole, che Cristo rivolge ai suoi aguzzini venuti ad arrestarlo, sono quelle che forse con più forza ci interpellano nel loro essere così semplici eppure così eterne. Ben due volte Cristo le ribadisce alla masnada armata che è venuta a cercarlo: «Vi ho detto: sono io». Egli non scappa davanti ai suoi persecutori, ma partecipa di quello che sa dovrà essere il suo destino. Non fugge, ma si dona; non si sottrae alla volontà del Padre, ma si fa Uomo fino alla fine. L’Amore si manifesta in questo donarsi gratuito e senza ripensamenti, in questo desiderio di Dio di farsi Uomo perfino nel dolore e nella morte per renderci partecipi della sua stessa natura. L’Amore, quello vero, quello che salva, non può prescindere da questo totale e volontario abbandono ad un Altro, a Dio.
«Si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce». L’obbedienza è la cifra di questo Amore, che non rappresenta una mortificazione, ma un atto di profonda libertà, forse «la forma più elevata dell’uso della libertà», perché è autorità su se stessi, libertà perfino da se stessi. Obbedire, abbandonarsi quindi, è una professione di speranza nel provvidente Amore di Dio. La consapevolezza che il male è sempre di un momento, che i nostri limiti pur se sembrano sopraffarci mai ci soffocheranno, che le nubi, per quanto possano, oscure, nascondere il cielo, mai potranno cancellare le stelle, perché Dio ci ha desiderato e amato e continua a desiderarci e amarci. È lui che, sperimentano la nostra morte, ci rende parte della Sua resurrezione.
Questo abbandono genera la meraviglia. Decentrare l’uomo è la più grande sfida di questo nostro mondo votato all’antropoteismo. Il superomismo si infrange sotto il peso della sua vacuità, perché è come pensare ad un uomo che guarda in uno specchio il suo riflesso; all’inizio ne gioisce, ma si accorge presto che in quello specchio non potrà che trovare le sue mancanze, che solerti verranno a ricordargli quanto sia impotente. Proviamo a guardare in uno specchio puntato verso il cielo! Sarà quella trascendenza a completarci e ci si aprirà davanti l’infinito. Allora veramente vedremo «l’erba più verde e il sole più brillante». Scopriremo che la più grande risorsa di questo nostro tempo è l’Uomo stesso, in virtù di quella piccola scintilla che brucia ardita sotto quella sua dura scorza di umanità.
«Non enim cogitationes meae cogitationes vestrae, neque viae vestrae viae meae».