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PAROLE SINCERE SUL TERRORE. RUTH DUREGHELLO E LA NECESSITA’ DI DIRE LA VERITA’

dUREGHELLO-a cura di Francesco Severa- Viviamo in una società oramai assuefatta al politicamente corretto. Abituata fin troppo all’idea che vi siano determinate cose che, a prescindere dalla loro rispondenza al vero, bisogna evitare di dire, forse addirittura di pensare. Siamo spesso costretti dal distorto moralismo di una certa èlite culturale, che si sente depositaria del compito di giudicare ciò che è giusto e ciò che invece non lo è, ad imporre a noi stessi quasi un’auto-censura del linguaggio, che assai facilmente rischia di trasformarsi, quasi ad avverare i peggiori incubi di Orwell, in una revisione sistematica del libero pensiero di ognuno. Sarà allora questione di abitudine e rassegnazione; sarà più probabilmente la consapevolezza che, non essendo semplice oggi essere accettati nei salotti che contano quando si pone solo la proprio coscienza a parametro del proprio pensiero e delle proprie scelte, vi è assoluta scarsità di persone non tanto capaci, quanto disposte, a fare tutto ciò; ma sembra salire dal cuore un senso profondo di liberazione quando ci si imbatte per caso in uno di quei felici esseri umani che hanno il coraggio – pensate quale grande virtù eroica – di dire semplicemente come stanno veramente le cose; direi ancor di più che hanno la forza straordinaria di chiamare le cose con il loro nome. Tanto più quando questo accade durante il solenne momento, ormai non più inedito, in cui un Romano Pontefice fa visita alla comunità ebraica romana – romana da ben ventidue secoli – nel loro Tempio maggiore, che, con la sua inconfondibile cupola, è lì a testimoniare “la libertà ottenuta dopo secoli di restrizioni e di umiliazioni”, come ha detto il Rabbino-capo Di Segni. Non è la prima volta – per l’esattezza è la terza – che un Papa visita la grande Sinagoga di Roma. Ed è quindi forse propria di un evento storico che si fa consueto l’ingessatura dei suoi protagonisti, che sembrano semplicemente voler dare continuità al gesto con il quale Giovanni Paolo II ed Elio Toaff hanno voluto mettere fine a secoli di incomprensioni e incolmabili distanze. A seguire la diretta in televisione tutto sembrava prepararci al normale procedere di una giornata straordinaria, scandita da baci, abbracci e tante parole di cortesia. Ma sono bastate le prime battute del discorso di benvenuto del presidente della Comunità Ebraica di Roma a rompere l’ostentata normalità di tante strette di mano, che sembravano così in contrasto con gli sconquassi che il nostro mondo sta oggi subendo. E’ rivolgendosi direttamente al Santo Padre che Ruth Dureghello ha dichiarato: “la Sua visita non porta con sé il segno dei ritualismi”. Non è di sterili riti che vuole sentir parlare questa donna minuta, dai capelli rosso fuoco. E’ con voce tesa e frasi brevi e dirette che vuole rammentare a tutti che la riconciliazione tra Cristiani ed Ebrei non è semplicemente un abbraccio a favore di telecamera, ma l’assunzione di responsabilità comuni. Ci vuole coraggio oggi a combattere l’indifferenza generale dichiarando che “l’antisionismo è la forma più moderna di antisemitismo”. E’ segno di estremo realismo oggi affermare che la pace non si può costruire con chi semina “il terrore con i coltelli in mano”; che essa “non si conquista versando sangue nelle strade di Gerusalemme, di Tel Aviv, di Ytamar, di Beth Shemesh e di Sderot”. E’ una sveglia chiara per le coscienze arrendevoli chiedersi: “possiamo affrontare un processo di pace contando i morti del terrorismo?”. Non ha paura Ruth Dureghello, esprimendo una palese verità che molti, per un insensato amore per i distinguo, rifuggono, di porre accanto alla parola “terrorismo” l’aggettivo “islamico”. “Molti si chiedono se il terrorismo islamico colpirà mai Roma. Signori, Roma è già stata colpita. Un solo nome: Stefano Gaj Taché, due anni, 9 ottobre 1982, ucciso da un commando di terroristi palestinesi”. E’ cruda la verità quando ci ricorda che invulnerabili all’odio di chi il razzismo lo perpetra in nome di Dio forse non lo siamo mai stati. Ma vi è in queste parole la profonda consapevolezza del fatto che il coraggio nasce nel momento in cui non semplicemente affrontiamo le nostre paure, ma quando sappiamo chiamarle per nome, definirne un’identità e non pavidamente decidere di censurarle a noi stessi. Ecco perché, solo dopo aver così potentemente delineato a quale terrore ci stiamo contrapponendo, possiamo assumerci una responsabilità. “Di fronte al sangue sparso dal terrore in Europa e in Medio Oriente, di fronte al sangue dei cristiani perseguitati e agli attentati perpetrati contro civili inermi anche all’interno dello stesso mondo arabo, di fronte agli orrendi crimini compiuti contro le donne. Non possiamo essere spettatori. Non possiamo restare indifferenti. Non possiamo cadere negli stessi errori del passato, fatti di silenzi assordanti e teste voltate. Uomini e donne che rimasero immobili davanti a vagoni stipati di ebrei spediti nei forni crematori”. Di indifferenza in questo nostro Occidente ormai ci campiamo; ed allora non è un caso che un appello del genere venga da una donna con un legame così forte con quello stato di Israele che invece paga ogni giorno il prezzo di rappresentare l’ultimo baluardo a difesa di una civiltà che nella vita ha il suo bene supremo; non è un caso che un appello del genere venga da una donna di Fede. “La Fede non genera odio, la Fede non sparge sangue, la Fede richiama al dialogo. Una convivenza ispirata all’accoglienza, alla pace e alla libertà in cui si impari a rispettare, ciascuno con la propria identità, l’altro…certi che questa consapevolezza, che non appartiene esclusivamente alle nostre religioni, possa trovare la collaborazione anche dell’Islam”. Quale grande onestà nella coscienza di chi con così grande forza ci richiama alla verità di una Fede che non può mai ispirare azioni inumane, ma che ha la responsabilità di ergersi contro la violenza, di condannarla. Perfino l’Islam ha questa responsabilità. Qualcuno ha voluto definire questo un discorso politico. Ma più che politico, possiamo con certezza affermare che questo sia stato al contrario un discorso sincero. E la sincerità, soprattutto in un tempo in cui ogni nostro pensiero è sottoposto al giudizio severo e inappellabile di una boriosa e antipopolare classe culturale, è preziosa espressione non solo di buon senso, ma di coraggio e libertà di coscienza. Un gioioso squillo di tromba per cuori assopiti, di cui, possiamo ben dire, la nostra società ha una terribile necessità. Abbiamo un debito verso persone come Ruth Dureghello; persone che ci destano dai sogni che non ci hanno fatto accorgere delle nuvole nere che ci sovrastano, ma che con altrettanta forza ci rammentano la certa speranza che dietro le nuvole rimangono fisse le stelle.
Qui il testo integrale del discorso: http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/01/17/ruth-dureghello-la-pace-non-si-conquista-con-i-coltelli-in-mano-scavando-tunnel-lanciando-missili___1-v-137134-rubriche_c288.htm

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