police-belgio-di Francesco Severa- Ci siamo tutti chiesti cosa ci sia di sbagliato nel mondo. Perchè tra i volti sorridenti di tanti ragazzi che vivevano la loro giovinezza tra le strade di Parigi, simbolo del nostro Occidente sazio e disperato, si nascondessero i volti, già segnati dall’ombra della morte, di ragazzi che la follia di una religione distorta, che qualche criminale col turbante color pece vorrebbe usare quale strumento per una nuova strategia egemonica in Medio Oriente, ha trasformato in un’arma di terrore. Ed è un terrore inedito e forse per questo ancora più penetrante quello che quel maledetto venerdì sera di fine autunno ha afferrato i nostri cuori di europei. Non è certo un segno di viltà riconoscere la propria paura; anzi è forse questa coraggiosa ammissione a permettere che essa non si trasformi in un veleno paralizzante o che, peggio, possa darci alla testa come un amaro vino inebriante. Eppure oggi, noi occidentali, viviamo la difficile prova di dover rispondere, senza negare noi stessi, al vile attacco di un nemico che, avendo dichiarato guerra al nostro modo di vivere e di pensare, vuole annientarci. Abbiamo la grande difficoltà di comprendere fino in fondo e dunque di giustificare le azioni del terrorismo islamico, perchè esiste tra la nostra e la loro concezione del mondo e della storia, della vita e della civile convivenza, un’incolmabile, direi quasi ontologica, incompatibilità. Quando, all’indomani della strage di Parigi, l’arcivescovo della città, il cardinale Vingt-Trois, afferma che “i cristiani non possono odiare, Dio ha fatto l’uomo per l’amore e per la vita, non per l’odio”, non soltanto rammenta una verità di fede ad ogni buon cristiano, ma traccia una linea netta tra la nostra Civiltà Occidentale che, volenti o nolenti, è imbevuta di cristianesimo e riconosce nella vita il valore supremo da difendere sempre, e la loro deformata ideologia religiosa che giustifica la morte di persone innocenti perchè non sottomesse. Volenti o nolenti, il nostro modo di pensare ci ammonisce che pur se, dopo quanto successo il 13 novembre, gettare bombe su Raqqa e sulla Siria è azione giustificata e necessaria, ciò non rende questa azione giusta. E questo estremo rispetto per l’esistenza umana è visibile perfino nella nostra concezione del martirio, che è presente in maniera fortissima all’interno della nostra Tradizione, non solo religiosa, come estrema testimonianza di attaccamento alla vita che genera il coraggio di disprezzare la morte; quando invece i kamikaze di Parigi sembrano solo morire nel tentativo di esprimere un disprezzo profondo dell’altrui esistenza. E’ questa sottile difesa della vita nella sua pienezza, che si espande poi alla libertà e sopratutto alla ricerca di una felicità propria dell’Uomo, che ci rende così odiabili, così indegni, così rei agli occhi di questi criminali senza scrupoli, pronti a compiere il più grande dei sacrilegi, usando la religione come strumento di dominio. Il rischio è però che davanti a tanta violenza, le nostre azioni non siano guidate dal razionale sforzo di affermare la nostra estraneità a questo odio inumano, senza cedere alla paura e abbandonare la nostra normalità quotidiana, ma, capitolando davanti alla barbarie, esse si lascino sopraffare dalle ragioni dell’emergenza, regalando ai nemici un’indiretta vittoria. Come successo negli Stati Uniti all’indomani dell’undici settembre, quando lo “USA Patriot Act” – una legge che tentò di ridurre il rischio di attacchi sul suolo americano, consolidando i poteri di CIA, FBI ed NSA, con gravi ripercussioni sulla privacy dei cittadini -, in soli tre giorni, fu approvato dai due rami del Congresso e finì sulla scrivania di George W. Bush per la firma presidenziale, anche oggi nella nostra Europa, la situazione drammatica che viviamo ha spinto diversi governi a prendere iniziative forti, che, con l’obiettivo di annientare la minaccia terroristica, pongono forti limitazioni alle libertà dei singoli. Emblematico il discorso che il presidente Hollande – un uomo che fino a due settimane fa era praticamente ignorato dai suoi stessi cittadini – ha rivolto al parlamento francese in seduta comune a Versailles, proponendo non solo l’estensione da dodici giorni a tre mesi dello stato di urgenza, che, in base ad una legge del 1955, una volta dichiarato dal governo, può autorizzare l’utilizzo di eccezionali poteri di polizia riguardanti la circolazione di persone e di veicoli, il soggiorno di persone, la chiusura di luoghi pubblici, le perquisizioni a domicilio di giorno e di notte, il divieto di riunioni di natura tale da comportare disordini e il sequestro di armi; ma anche la sua costituzionalizzazione, ritenendo i regimi speciali già previsti dalla costituzione francese del 1958 – articolo 16 e 36 – non sufficienti a far fronte all’attuale situazione. Ma non è solo Parigi a veder negare ai suoi cittadini il diritto a riunirsi liberamente. Dopo che Domenica in tarda sera le tortuose e suggestive strade che salgono il lieve poggio che divide la Grand Place dalla Sablon sono state completamente isolate per una gigantesca operazione di polizia che ha coinvolto anche i quartieri più periferici della capitale belga, Bruxelles è sotto allerta massima, con la chiusura imposta a scuole e metropolitana, oltre che a teatri e chiese. Un coprifuoco che forse non si vedeva in città dai tempi della seconda guerra mondiale. Perfino l’Italia non è esente da contraccolpi: non è forse inquietante che il nostro ministro degli interni dichiari che per difendere la nostra sicurezza dobbiamo rinunciare ad un “pezzettino della nostra privacy”? C’è qualcosa di rassicurante nel vedere i governi usare il pugno di ferro contro i terroristi, anche se tale dimostrazione di forza sembra figlia più di un malriuscito tentativo di riaffermare una solo apparente autorità, quasi dovessero scusarsi di aver ignorato per decenni la presenza di cellule terroristiche nei nuovi quartieri islamici delle nostre città, piuttosto che di una reale consapevolezza di quali azioni siano in questo momento necessarie. Ma la compromissione della nostra libertà, la chiusura coatta imposta alla nostra quotidianità in nome di una sicurezza neanche poi così solida, rischia di essere la resa incondizionata davanti alla paura che i professionisti dell’odio vogliono incuterci. Il loro obiettivo non è forse proprio quello di mettere in crisi il nostro modo di vivere, che ritengono blasfemo e colpevole? Possiamo realmente pensare di resistere a questo terribile pericolo negando noi stessi? Dobbiamo avere ben presente il fatto che questa sfida a cui siamo chiamati è innanzitutto culturale. E passa attraverso una sana riscoperta della nostra identità, che non può essere distaccata dall’idea che non possiamo cedere le nostre libertà alla paura. Farlo vorrebbe dire abbandonarsi ad una insensata sottomissione all’odio; vorrebbe dire barattare una sicurezza temporanea per le nostre libertà fondamentali; vorrebbe dire certificare il definitivo tramonto di questo Occidente.