La Nazione intesa come appartenenza comunitaria consapevole è una teoria frutto della rielaborazione – negli anni del primo dopoguerra – della dottrina sindacalista-rivoluzionaria di George Sorel incentrata su di un “mito fondante” e degli studi sulla psicologia delle folle di Gustave Le Bon. Prima di avvicinarsi agli ambienti monarchici e tradizionalisti transalpini il socialista eretico Sorel aveva individuato nella lotta di classe violenta e nello sciopero generale quell’insieme di “veri istinti vitali” in grado di smuovere le masse. Dunque il mito è uno strumento di mobilitazione politica e sociale immune dalla dimostrazione logica proprio perché frutto di una spinta psicologica ed irrazionale; esso è esente da ragionamenti, è prima di tutto una “scelta di cuore”. Il mito soreliano è una “preparazione alla battaglia per distruggere ciò che esiste” e non un’utopia utile solo all’accomodamento delle masse in favore di politiche riformistiche e moderate volte a modificare il sistema “per gradi”. Sorel nel 1906 tentò quindi di teorizzare la “rivoluzione integrale” che doveva scaturire dalla diffusione dei miti collocandosi in quel filone del pensiero socialista irrazionalista che del marxismo aveva ormai ben poco.
La Grande Guerra fu l’evento che scardinò alla base il mito della lotta di classe sostituendolo con quello della Nazione. Il francese Maurice Barrès – deputato dell’ Açtion Française ma di fede repubblicana – durante il conflitto fu propagandista per lo Stato Maggiore transalpino e sottolineò come le masse per diventare materia prima dell’azione politica avessero bisogno di entrare in contatto con l’élan vital del mito nazionale. Nella società di massa quello della Nazione non poteva restare un concetto elitario, doveva necessariamente travalicare i confini della classe dirigente, dell’ aristocrazia politica, per raggiungere il popolo. Tale concetto sarà poi approfondito negli anni ’30 da Hans Zehrer e dal gruppo della rivista “Die Tat” il cui scopo era la creazione d’una comunità “di fede e d’intenti” del popolo tedesco.
E’ proprio da qui che si inserisce Carl Schmitt che, nel caos politico della Germania di Weimar, era alla ricerca di un antidoto contro il bolscevismo dilagante . Questo antidoto non poteva però essere – come sostenuto dai vecchi conservatori e dai liberali – lo Stato perché esso era ben lontano dall’essere l’espressione dell’autorità e degli interessi nazionali come nella decaduta monarchia guglielmina. Lo Stato repubblicano era in realtà il “commissario liquidatore” della Germania, era il frutto dei diktat di Versailles ed era, tra le altre cose, dotato di quel tanto di sovranità che bastava a pagare i danni di guerra alle Potenze vincitrici dell’Intesa. Insomma, lo Stato tedesco era “anti-tedesco”. Solo la forza elementare della Nazione poteva essere scagliata contro il sovversivismo bolscevico.
Schmitt come Sorel individuò nel mito la forza trainante per le masse, però la sua forza non risiedeva nella lotta di classe bensì nel sentimento nazionale inteso come “coscienza di una comunità di destini” sulla linea del sociologo Max Weber. Diceva Schmitt che la lingua e la tradizione – non la religione per un cattolico in un Paese a maggioranza protestante – sono le “più naturali rappresentazioni di razza ed etnia”, però per essere Nazione non bastavano i dati oggettivi e biologici. Proprio a causa di questa negazione del “primato” della biologia sullo spirito Schmitt ricevette le dure critiche delle frange völkisch e dei teorici “oggettivisti” della rivoluzione conservatrice. Schmitt si associò invece all’idea di Mussolini e del fascismo pre-gentiliano secondo cui la Nazione era un mito fatto di fede ed entusiasmo al quale non necessariamente doveva corrispondere un fundamentum in re. E’ confermata così la derivazione “latina” del pensiero schmittiano rispetto al diffuso “prussianismo” degli intellettuali tedeschi del periodo weimariano.
Tale concezione mitica della Nazione sarà approfondita da Schmitt nei suoi studi del 1927 e 1928, rispettivamente sul Concetto del politico e sulla Dottrina della costituzione. Una unione di uomini “affini etnicamente o culturalmente” è certamente un popolo ma “non esiste come nazione” se mancano volontà e consapevolezza di esserlo. Questo dei “popoli inconsapevoli” è l’esempio che oggi potremmo fare per tutte quelle “nazioni negate” e per tutti i gruppi etnico-culturali affini divisi però tra Stati-nazione diversi e che sono quasi incapaci d’essere indipendenti. A fondare l’unità politica è dunque un atto esistenziale e soggettivo che spinge i gruppi organizzati a distinguere l’amico dal nemico (quest’ultimo inteso sempre e solo come hostis publicus). Questo tipo di collettività “combattenti” diventano nazioni per un atto della volontà; cioè attraverso la cultura, da intendersi come la “consapevolezza” non solo di avere tradizioni comuni, ma anche d’essere una “comunità di destini” nel presente e per il futuro.
Sempre nell’alveo della rivoluzione conservatrice è Ernst Jünger a confermare – pur partendo da una premessa diversa – la teoria schmittiana sulla Nazione. Per l’ex ufficiale delle truppe d’assalto germaniche la Nazione è un “organismo di carne e sangue” e non un fatto spirituale; però è anche vero che il sangue non è per il nazionalismo un concetto biologico ma il “combustibile che alimenta la fiamma metafisica del destino” ed è su questa concezione mitica che si incontrano il giurista cattolico Schmitt con il militare Jünger. La Nazione non è un’immagine, non è un contenuto concreto né un fatto oggettivo, ma un mito che ha bisogno di realizzarsi.
Ora, la volontà collettiva d’essere Nazione doveva essere interpretata e rappresentata da un capo carismatico che Schmitt sintetizzò nella concezione del Führerprinzip; però è anche vero che in un Paese come l’Italia ed in una realtà come quella odierna tale principio non è né valido né attuabile. Nella tradizione italiana il “mito fondante” della Nazione esiste, ma diventa patrimonio di pochi; la mancata “nazionalizzazione” delle masse in Italia fu sopperita dalla rapidissima “politicizzazione” del popolo in grigioverde durante la Grande Guerra con risultati diversi a seconda dei casi analizzati. Dunque non una scelta consapevole ed unitaria nei confronti della Nazione ma un riflesso delle più diverse sensibilità emerse dal conflitto. Ecco perché nella dottrina fascista – specie per influsso di Giovanni Gentile – al “mito della Nazione” ereditato dalla tradizione combattentistica si aggiunse il “mito dello Stato”. Lo Stato è inteso come la “coscienza immanente della nazione” ed ha la funzione etica del pedagogo incaricato di educare le masse al mito della Nazione.
Il fascismo ha sempre affermato il primato dello Stato sulla Nazione seguito a ruota dalla destra neofascista e postfascista. Oggi – anche per influsso di culture politiche provenienti da “destre” diverse – è necessario ripensare il nostro “essere Nazione” perché lo Stato ha abbandonato la propria funzione etica e pedagogica, anzi, è lo Stato stesso – che in democrazia è strumento delle fazioni e non il custode supremo della sovranità – ad educare le masse al mito dell’anti-nazione. Ridare la consapevolezza dell’italianità al popolo dovrebbe essere obiettivo primario sul fronte culturale per una destra politica che ha deciso di votarsi al presentismo senza dar vita al necessario collegamento tra passato e futuro. Non si costruisce una coscienza nazionale sugli argomenti del giorno perché il rischio che si corre è una “balcanizzazione” intellettuale del Paese con la deriva schmittiana di un popolo che è sì affine etnicamente e culturalmente ma di certo inconsapevole d’essere Nazione e, pertanto, ostaggio delle collettività vicine.