farnesinadi FILIPPO DEL MONTE –

Rispetto al primo semestre del 2015 nulla è cambiato nella linea di Politica estera seguita dall’Italia. Dalla crisi ucraina alla guerra civile libica, passando per i controversi rapporti con i partners dell’Unione europea, Roma non è riuscita a trovare un proprio spazio decisionale autonomo mostrando tutti i limiti della propria condotta (perché di strategia non si può certo parlare) politico-diplomatico-militare.

Partiamo dalla crisi ucraina, dove il nostro Paese sta subendo le conseguenze delle sanzioni europee e delle controsanzioni russe. Nonostante Putin abbia parlato di “rapporto speciale italo-russo”, non si può negare che le relazioni con il Cremlino si siano drasticamente raffreddate dopo la nostra presa di posizione contro l’annessione della Crimea. La Federazione russa è un partner fondamentale per l’Italia: gas e materie prime provenienti dalle steppe sono essenziali per la produzione industriale ma anche per la vita quotidiana nel nostro Paese; questo a Roma lo sanno bene ed hanno tentato di moderare le posizioni fin troppo dure di Berlino e Parigi. Eppure nella gestione della crisi ucraina il governo italiano ha agito portando sulle spalle una contraddizione pericolosa, cioè quella di agire da “mediatore” (tra l’altro non riconosciuto) tra l’ala dura dell’UE e la Russia da una parte e quella di sostenere l’inasprimento delle sanzioni contro Mosca dall’altra.

Così facendo Roma si è ritrovata priva di qualunque autorità e forza negoziale con entrambe le parti rischiando di compromettere definitivamente il “legame speciale” con la Russia e di perdere quel poco di credibilità diplomatica in sede europea. Ora, la domanda da porsi è cosa ha costretto l’Italia ad andare contro i propri interessi nazionali nella questione ucraina? Non si tratta solo ed esclusivamente di errori dovuti alla poca dimestichezza dei nostri politici con gli affari internazionali, ma anche ad un problema di fondo dell’Unione europea: l’eccessiva espansione. Dicendo questo andiamo a toccare un tasto dolente dell’impianto politico-strategico comunitario in quanto si mette in dubbio che l’ingresso dei Paesi dell’est (principalmente il blocco polacco-baltico) sia stata una risorsa. L’ingrandimento dei confini UE ad oriente avrebbe significato solo una cosa: uno scontro con la Russia sul lungo periodo; qualcosa di diverso dalla “vulgata” comune sulla “nuova Guerra fredda”, quanto piuttosto la classica reazione di una Potenza a vocazione imperiale come la Russia messa di fronte all’erosione della propria area d’influenza.

L’ingresso di Polonia e repubbliche baltiche nell’Unione europea (2004) ha spostato per forza di cose l’asse della Politica estera comune verso est e quindi anche un cambiamento negli interessi e nella strategia da adottare. L’asse centro-orientale guidato dalla Germania ha preferito la contrapposizione frontale con Mosca (sotto la spinta dell’anti-russa Varsavia) piuttosto che il dialogo, favorito invece da Italia e Francia. Fino a quando Parigi ha appoggiato Roma nella difesa della linea filo-russa, l’Unione europea ha evitato sussulti e divisioni alla sua frontiera orientale; i rinnovati sogni di grandeur dell’Eliseo hanno però spinto i transalpini ad appoggiare le iniziative tedesco-polacche in favore dell’Ucraina e Roma si è ritrovata isolata e costretta ad accettare il fatto compiuto delle sanzioni. Dunque dalla attuale gestione della crisi ucraina (e la Mogherini, come lady PESC non è esente da colpe) il nostro Paese non avrà vantaggi, anzi, aggregandosi a questo grande e disorganizzato “carrozzone” euro-atlantico ha solo subito danni.

Ragionando sulla linea politica dell’UE in Ucraina si arriva necessariamente a parlare dei rapporti tra l’Italia e gli altri partners comunitari. L’estate scorsa, al momento delle nomine ai vertici dell’Unione, Roma e Parigi avevano stretto un’alleanza di compromesso per eleggere rispettivamente la Mogherini (PESC) e Moscovici (Affari economici e monetari), tagliando fuori i candidati del gruppo centro-orientale i cui perni sono Germania e Polonia. Fu quello il periodo in cui ci si chiedeva se sarebbe nato un asse italo-francese in grado di trainare i Paesi mediterranei dell’Unione fuori dalla crisi economica (seguendo un modello alternativo all’austerity di marca germanica), dunque di essere competitors dei tedeschi. Tale iniziativa chiaramente non poteva prescindere dal rafforzamento dell’influenza delle due Nazioni trainanti di questo progetto.

Italia e Francia avevano ed hanno interessi simili: riportare il Mediterraneo al centro delle iniziative di Politica estera e di sicurezza comune; contrapporsi alla Germania come “guide” dell’Unione europea. Le nomine di un’italiana alla guida della Commissione PESC e di un francese alla Commissione economica erano funzionali al raggiungimento di questo obiettivo. Peccato che Parigi abbia deciso di riallacciare i propri rapporti con Berlino (ricostituendo quell’asse franco-tedesco sul quale si poggia l’Europa unita secondo la gran parte dei politologi) dopo il tracollo delle relazioni con la Russia e che Roma non sia stata assolutamente in grado di sfruttare il semestre di presidenza UE. A questo bisogna aggiungere poi il relativo isolamento politico a cui Federica Mogherini è stata relegata dalla rinnovata partnership franco-tedesca e dall’ostilità (palese fin dall’estate 2014) che i Paesi baltici e la Polonia nutrono per la linea politica dell’ex ministro degli Esteri italiano.

Se Matteo Renzi aveva pensato di poter incidere sulla Politica estera comunitaria grazie allo strabiliante risultato elettorale del PD ed alla presenza della Mogherini alla guida della PESC si è sbagliato di grosso; gli attuali equilibri politici europei, troppo spostati a nord est anche a causa dell’evanescenza italiana, non possono di certo essere scardinati con un paio di nomine in Commissione ma richiedono un progetto di lungo periodo alla base. L’Italia di oggi ambisce a cercare il suo posto nell’Unione europea a trazione tedesca ma lo sta facendo nel modo sbagliato: a Roma sono convinti che “fare presenza”, siedere a tutti i tavoli, significhi avere un posto di riguardo negli equilibri continentali (per certi versi lo stesso errore della famosa “Italietta” di fine ‘800); in realtà si finisce per contare poco in tutti i campi anziché essere attori fondamentali nei settori principali della vita politica comunitaria. Le difficoltà incontrate da Roma per trasformare il Mediterraneo nello scenario di primo piano per l’UE dimostra in pieno questo (ma lo stesso si potrebbe fare prendendo a modello le sofferenze dell’export agroalimentare nazionale o la politica dei gasdotti diretti dalla Russia in Europa occidentale).

Veniamo ora alla terza spinosa questione che agita le torbide acque della Politica estera italiana: la Libia. La crisi politico-militare nella nostra ex colonia per l’Italia non è solo una questione di equilibri geopolitici ma è legata a doppio filo con il dramma dell’immigrazione. La guerra civile tra Tobruk e Tripoli (ma dovremmo aggiungerci anche la presenza di formazioni legate a vario titolo allo Stato islamico) non è solo frutto delle divisioni secolari tra Tripolitania e Cirenaica ma anche il prodotto di quel grossolano errore strategico che fu l’intervento NATO del 2011, privo di un piano per gestire la transizione del “dopo-Gheddafi”. Se aggiungiamo che in Libia si sta scrivendo uno dei capitoli della “Guerra dei Trent’anni” tra sunniti e sciiti lo scenario diventa esplosivo; è chiaro che in un contesto del genere, con il caos a 350 miglia dalle proprie coste, il nostro Paese è costretto a giocare un ruolo fondamentale.

Ai proclami bellicisti dei ministri Pinotti e Gentiloni si è sostituita la prudente e deleteria linea del premier Matteo Renzi, strenuo sostenitore della soluzione diplomatica patrocinata dall’inviato speciale dell’ONU Bernardino Lèon, incapace fino ad ora di ottenere risultati degni di nota. Certo, un intervento militare unilaterale italiano sarebbe un suicidio, giusta l’osservazione di chi parla della Libia come del “nostro Vietnam”, ma allo stesso tempo l’ipotesi di un intervento congiunto con gli altri partners interessati (Francia ed Egitto su tutti) non può essere scartata aprioristicamente. In Libia la situazione si è aggravata anche (ma non solo) a causa dell’attendismo diplomatico delle Potenze mediterranee e Roma ha più di una colpa. Alla base di tutto ciò c’è stato un errore politico di fondo: gli italiani hanno scambiato la risoluzione della crisi libica per il contrasto all’immigrazione clandestina, le due cose però sono complementari ma non parte di un unico grande evento.

Dunque né “Mare sicuro” né l’imponente meccanismo messo in piedi dal governo di Roma per l’accoglienza dei migranti sono sufficienti per portare la stabilità in Libia. Né Tripoli né Tobruk sono interlocutori affidabili (il contrasto al traffico di esseri umani non sembra infatti una priorità per entrambi i governi libici) ed allo stesso tempo non vogliono intromissioni occidentali sul loro territorio condannato l’Italia ad una lenta ma inesorabile rovina. Roma sta tornando “prigioniera” nel Mediterraneo che doveva invece essere il trampolino di lancio della nuova stagione di intese euro-nordafricane? Accantonando gli interessi nazionali per un non meglio specificato interesse comunitario, questa è sicuramente la fine che il nostro Paese si accinge a fare. Per quanto riguarda la questione immigrazione le misure prese finora non sono affatto sufficienti; il pattugliamento delle acque (sul modello della Missione Atalanta) non arginerà il fenomeno illegale connesso con i “viaggi della speranza”; il racket va colpito alla base con interventi che possano portare alla distruzione dei barconi alla fonda (secondo quanto fatto dai nostri incursori di Marina negli anni ’90 in Albania). La linea politica tenuta dalla Germania (differenziazione tra profughi e migranti economici) e la “morte del Trattato di Schengen” sull’onda delle decisioni ungheresi ci spinge a dire che anche la risoluzione dell’emergenza immigrazione deve avere squisitamente una “visione nazionale”. Non si tratta tanto guardare alle prossime elezioni od ai prossimi vent’anni, si tratta piuttosto di garantire la sicurezza del nostro Paese, anche perché l’arrivo di un numero elevatissimo di disperati avrebbe ricadute interne di non poco conto. Invece sulla crisi libica occorre riflettere di più, chiaramente pacificare e stabilizzare un Paese nel caos è un impegno difficile da portare avanti ma di una cosa si può essere più che sicuri: le semplici pressioni diplomatiche ed il sostegno incondizionato all’operato di Bernardino Lèon sono dannosi per l’Italia.

Da questa analisi a grandi linee della Politica estera italiana ci si rende conto del fatto che il nostro Paese non è stato capace di elaborare strategie e tattiche vincenti in una fase particolarmente fluida dello scenario internazionale; elaborazione di una strategia nazionale che diviene necessaria non tanto per guadagnare influenza (ormai quel treno è passato) quanto per arginare i danni provocati dall’attendismo e dal “buonismo”, due fattori che non dovrebbero rientrare affatto tra i paradigmi della Politica estera; e l’unico modo per avviare un progetto del genere è ripensare la nozione di “interesse nazionale” e rimetterla al centro del nostro operato nel mondo.