-a cura di Luca Proietti Scorsoni – Godot. Si, ho ripensato a lui, al protagonista del celebre dramma teatrale. Ero intento a riordinare i pensieri al termine dell’incontro promosso dal think thank Glocus, presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato, quando il personaggio di Beckett ha fatto capolino nella mia mente. Forse il frutto di un’associazione apparentemente illogica di idee o magari il bisogno sotteso di elaborare un’allegoria più o meno fondata dell’attuale stato di salute del liberalismo in Italia, fatto sta che Godot è apparso con quell’aurea malinconica tipica degli individualisti, di quelle persone in grado di essere, nello stesso medesimo istante, vittime e vincenti. Come i liberali, appunto. Ancor più se italiani. Ora però, una volta dipinto il mio sentire in conclusione dell’evento, è giusto che passi ad un resoconto maggiormente serioso della giornata. A Palazzo Madama il protagonista assoluto è stato il professor Corrado Ocone che, per l’occasione, ha presentato la sua ultima fatica letteraria: “Il liberalismo nel novecento: Da Croce a Berlin” edito da Rubbettino. Assieme all’autore erano presenti anche altre importanti figure del panorama politico e culturale italiano quali Claudio Cerasa, Linda Lanzillotta, Alessandro Maran, Mirella Serri e Giorgio Tonini. Dai nomi, l’avrete capito, è stato possibile aprire perfino un interessante spaccato di quella sinistra che gli anglosassoni definiscono da una vita “liberal” mentre, alle nostre latitudini, denominiamo più concretamente come riformista. Addirittura Tonini, parlando delle origini politico-culturali del suo partito, ha rivendicato l’importanza del liberalismo in quanto filtro concettuale grazie al quale la sensibilità gramsciana e quella dossettiana sono riuscite a mantecarsi vicendevolmente. In realtà i “democrat” presenti sono andati ben oltre nel loro argomentare a favore delle istanze tipiche di un pensiero liberale, tant’è che si è difesa addirittura quell’idea “schumpeteriana” legata alla distruzione creatrice come “conditio sine qua non” affinché il mercato possa essere tale, ovvero libero. Tradotto: l’impresa che non ha più i requisiti per poter competere deve fallire, solo così le società possono evolversi: la scomparsa dell’inefficiente lascia spazio a nuove e vecchie realtà davvero produttive. Ovviamente si parla di aziende che chiudono, cosa ben diversa sono i lavoratori delle stesse. Questi dovranno essere, in caso di bisogna, tutelati economicamente, formati professionalmente e ricollocati, possibilmente mediante un sano sistema competitivo pubblico-privato di agenzie interinali. Timide intenzioni o approcci teoretici che difficilmente vedranno dei riflessi nella contingenza quotidiana? Fatto sta che sentir parlare di certe questioni, in taluni ambienti, lascia un bel po’ di quel sano stupore che condisce non poco l’esperienza umana. Anche per quei liberali-conservatori come lo scrivente. Ed a proposito del termine liberale qui è sorta, dal mio punto di vista, la speculazione più interessante del seminario. Una parola desueta in quasi tutti gli approcci dialogici della politica contemporanea. Un vocabolo dapprima snaturato del suo reale significato e successivamente diluito nel vasto arcipelago partitico italiano. Foss’anche adoperata l’espressione evocherebbe comunque democraticità e rispetto delle opinioni altrui, null’altro. Forse una deriva esiziale di quella fraseologia demagogica inutilmente vagheggiata, già a partire dagli anni ’20, da Ludwig von Mises. In realtà, grazie soprattutto alla Serri, ieri è stata illuminata una nuova prospettiva che mette primariamente in causa Benedetto Croce. In pratica, se a Destra vi è stata lungamente una certa ritrosia nell’adoperare l’espressione “liberale”, questa è da imputare proprio al filosofo abruzzese. O, per meglio dire, ad una immagine deformata dell’intellettuale italiano. In effetti, in virtù di una particolare analisi filosofica alla base dell’egemonia culturale della sinistra, volta alla conquista delle casematte del potere, Croce per molto tempo è stato visto come un tassello rilevante di quella storia del pensiero che da Francesco De Sanctis, passando per Antonio Labriola giunge fino ad Antonio Gramsci. In pratica Croce anticipa Gramsci all’interno di una visione meccanicistica e deterministica delle vicende umane. Da qui anche il famoso duello intellettuale che lo stesso Croce intraprese contro Luigi Einaudi sulla pregevolezza delle libertà economico-finanziarie. Ed ecco quindi come Croce, inscatolato all’interno di un’ottica marxista, venga in un certo senso sdoganato dal comunismo e quindi reso indigesto per appetiti libertari o comunque slegati dalle idee progressiste. Ciò detto, alla fine di tutto, è possibile nel nostro Paese divulgare ontologicamente il liberalismo, a prescindere dal contesto partitico? Si, purché si faccia propria la massima citata opportunamente da Maran in conclusione dell’evento: “L’attualità è la precondizione dell’egemonia”. Ergo, il pensiero liberale deve riversarsi tra le piazze, i mercati (e ci mancherebbe!) e le singole persone appartenenti a ceti ed estrazioni sociali differenti. Insomma, il liberalismo si deve denudare di quell’elitarismo che lo ha reso troppe volta residuale per farsi invece popolare ma non populista. E a scriverlo così non può che tornare alla mente la Forza Italia del tempo che fu, quando il movimento azzurro veniva indicato con l’appellativo di partito liberale di massa. Impresa possibile? All’inizio del mio scrivere ho citato Godot. Lui non giunse mai. Nel mio intimo la speranza che stavolta qualcuno arrivi è presente. Se così non fosse tanto varrebbe chiudere il sipario delle libertà. Ma stavolta per sempre.