-a cura di Filippo Del Monte- Durante i colloqui con Hollande a Parigi il premier Matteo Renzi ha richiesto all’Europa un impegno nella lotta contro lo Stato islamico per arrivare alla completa distruzione del “Califfato nero”. A parole l’Italia è una delle “punte di diamante” dell’interventismo europeo ma analizzando le vicende degli ultimi giorni si scopre che non è affatto così. Renzi ha ricordato nella conferenza all’Eliseo l’impegno militare italiano nelle principali operazioni di peacekeeping lasciando intendere che Roma non ha alcuna intenzione di partecipare attivamente alla formazione di una coalizione europea contro lo Stato islamico.
Anche in occasione degli attentati parigini – come già avvenuto per la questione libica, con grande imbarazzo di Palazzo Chigi – il governo italiano si è spaccato sulla linea da seguire. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha richiesto a gran voce un intervento armato contro Raqqa dicendosi convinto che l’Italia avrebbe avuto un ruolo di primo piano; dalla Difesa invece la Pinotti ha negato qualunque coinvolgimento militare del nostro Paese superiore agli sforzi già sostenuti in Iraq. Matteo Renzi, non propriamente un fulmine di guerra, ha preferito seguire la linea attendista di via XX Settembre piuttosto che accodarsi agli “interventisti umanitari” della Farnesina. I due “poli” Esteri-Difesa, con le loro divisioni e la loro diversa visione della politica internazionale, non fanno altro che accentuare l’immobilismo diplomatico dell’esecutivo, costretto a fare promesse che poi non potrà in alcun modo mantenere.
Il “presentismo” ed il presenzialismo ipertrofico dell’Italia le impediscono di progettare politiche di medio-lungo termine in aree strategiche di interesse vitale. Qualche analista (portandosi dietro parte dell’opinione pubblica) ha definito il Medio Oriente come un’area di “interesse secondario” per il nostro Paese al contrario della Libia. Questa tesi poteva essere approvata fino a qualche tempo fa, però dopo la comparsa delle milizie del Califfato a Derna e l’anarchia imperante sia in Siria che in Libia, è divenuta obsoleta. Sarebbe preferibile considerare la Siria e la Libia due fronti di una stessa guerra, da combattere con la medesima intensità e senza esitazioni nel “Grande Medio Oriente”. Il centrodestra è stato capace di fare propria questa linea ma si deve fare attenzione a non confondere la battaglia per l’intervento contro l’ISIS con la lotta ai flussi migratori d’impronta populistica. Insomma, i partiti di centrodestra dovranno fare in modo che una tematica legata alla sicurezza interna come l’immigrazione non si trasformi nella bussola della nostra Politica estera futura.
Rivolgendo lo sguardo ai nostri alleati ci si rende conto che Inghilterra e Germania hanno assunto una posizione fortemente “interventista”. Londra invierà navi ed aerei nel Mediterraneo orientale per sostenere l’intervento francese (in questa mossa è possibile leggere anche un disegno anti-russo) mentre Berlino spedirà 650 soldati in Mali per sostenere l’armata franco-maliana impegnata contro le milizie islamiste e tuareg della zona. Se la risposta britannica alle richieste francesi era abbastanza scontata, lo stesso non può dirsi della Germania, restìa negli anni precedenti ad impegnarsi militarmente. Angela Merkel è consapevole del ruolo che i tedeschi, piaccia o no, rivestono nell’Europa di oggi; ruolo che può essere mantenuto sostenendo attivamente gli alleati e non solo a colpi di crescita economica. E’ possibile che alcuni circoli politici a Berlino stiano facendo pressione sulla cancelliera per farle assumere quelle responsabilità che si richiedono ad una Grande Potenza.
Nello scambio di note diplomatiche e dichiarazioni di sostegno all’azione militare transalpina, chi latita è proprio il governo di Roma che si è limitato ad assicurare l’invio di 100 soldati in Libano per “allegerire” Parigi del peso di quella missione e permetterle di concentrarsi sull’Iraq. L’attivismo tedesco e le indecisioni italiane non fanno altro che rafforzare l’asse Parigi-Berlino gettando Roma in una sorta di limbo politico-diplomatico che ciclicamente, di fronte alle crisi internazionali, si ripresenta. La guerra allo Stato islamico rafforzerà la collaborazione europea, “ripulirà” la faccia della Russia, cambierà la geografia e gli equilibri mediorientali, ma soprattutto, se non si corregge immediatamente la rotta, aprirà un altro enorme squarcio nella credibilità internazionale dell’Italia.
Italia che anche sotto attacco si rifiuta di imbracciare le armi, che preferisce far finta che schierare una cinquantina di carabinieri in Kosovo la esenti dagli impegni veri in Iraq, che riempie le sue bacheche Facebook di bandiere francesi ma non vuole assolutamente sentir parlare di guerra, che ha parlamentari disposti a trattare con lo Stato islamico, che ha fatto dell’armiamoci e partite il suo motto nazionale, che preferisce un 8 settembre ad un 4 novembre. Forse tutto ciò è quello che il nostro Paese merita, forse bisognerà toccare il fondo prima di renderci conto che la nostra storia e la nostra posizione geografica, il nostro “peso determinante” per dirla con le parole dei diplomatici, ci impongono di agire e di non nascondere la testa sotto la sabbia.