– di Filippo Del Monte – Negli ultimi giorni la Libia è tornata al centro del dibattito politico internazionale. Secondo il Corriere della Sera il governo italiano avrebbe inviato drappelli di forze speciali – sotto il comando dell’AISE – per “sondare il terreno” nella nostra ex colonia. Il momento della missione sembra essere prossimo, tanto per le pressioni (a volte eccessive e quasi fastidiose) di Washington, tanto per la volontà di alcune Potenze europee di mettere fine ad una situazione anarchica troppo vicina per lasciarle indifferenti.
A prescindere da quale sarà la “legittimazione della missione”, è evidente che, tanto dal punto di vista tecnico-militare, quanto da quello politico-diplomatico, la componente marittima avrà un ruolo essenziale. Non si può pretendere di operare in un Paese mediterraneo senza un dispositivo navale forte. Ecco perché si sta pensando di unificare sotto comando italiano le forze distribuite nelle missioni “Mare sicuro” ed “Eunavformed”. Una partecipazione in forze alla missione sul fronte marittimo garantirebbe all’Italia di poter influenzare la linea di un eventuale Stato Maggiore congiunto e di poter “mettere il cappello” sul comando generale della missione. Questo sarebbe un obiettivo primario per evitare che gli interessi italiani in Libia siano ignorati e che – nei confronti non solo di Tripoli, ma anche di Roma – gli alleati conducano una “guerra di rapina”.
Ottenere il comando ed avere un peso nello Stato Maggiore congiunto garantirebbe all’Italia di avere più di una voce in merito, non solo nella conduzione della missione, ma anche nella futura sistemazione della Libia. Chiaramente questo impone di fare delle scelte ai nostri decisori politici ed ai nostri capi militari: in particolare quali strumenti utilizzare ed a quali scenari dare precedenza, ma soprattutto su quanto Roma sia disposta ad impegnarsi. Infatti dalla “presenza effettiva” sul campo nascono e si consolidano le gerarchie e dunque le priorità da dare a determinati interessi. In altre parole, se un’eventuale coalizione internazionale intervenisse in Libia, e l’Italia avesse un ruolo da comprimaria e non da protagonista, sarebbe tutto inutile. Anzi, sarebbe la farsa della tragedia del 2011.
E’ fondamentale delineare fin da subito quali siano gli interessi in ballo, da quelli energetici a quelli strategici, e declinarli secondo la più ampia definizione di “interessi nazionali”. La situazione in Libia è drammatica e sarebbe opportuno l’Italia dicesse a chiare lettere di essere pronta ad intervenire in qualunque momento, spingendo anche le fazioni libiche a trovare un accordo. Bisogna entrare nell’ottica secondo cui quanti a Tripoli e Tobruk si oppongono ad un accordo, non sono poi troppo diversi dalle milizie affiliate all’ISIS che ormai controllano la costa. Non aver voluto individuare un interlocutore, lasciando a tutti le “porte aperte” ha fin da subito condizionato la linea politica occidentale in Libia. “Linee rosse” più simboliche che reali e la necessità di dover mettere d’accordo anche chi d’accordo non voleva andare sono sintomi di un “tatticismo” di cui l’Europa fa fatica a liberarsi,
Sarebbe dunque ora di passare alla realpolitik informando l’opinione pubblica dei rischi ma anche della necessità di intervenire. Il cono d’ombra attorno all’intera vicenda ha spinto, secondo un recente sondaggio, l’81% dei cittadini a dichiararsi contrari a qualunque tipo di intervento. Avere un “fronte interno” coeso è il primo passo per garantire uno spazio di manovra di medio-lungo termine in Libia tanto a governo e Forze Armate italiani. Questa potrebbe essere l’ultima occasione per rilanciare la nostra la nostra politica di proiezione mediterranea; rimanere inerti – oltre che potenziali bersagli – anche questa volta potrebbe costarci caro tanto con il nemico, quanto con gli alleati.