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LEGGE DI STABILITA’ 2016: TORNA L’ITALIA SPRECONA?

18/05/2015 Roma, conferenza stampa al termine del Consiglio dei Ministri sulle pensioni dopo la sentenza della Corte Costituzionale, nella foto Giuliano Poletti, Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan

-di Antonio Pezzopane- Arriva in Senato la “finanziaria d’autunno” che lì inizierà il suo complesso iter, forte di aver incassato un ok sofferto da Bruxelles ma con tanti dubbi sulle sue ricadute future.

Dopo i tweet e le slide finalmente arrivano le carte della nuova legge di Stabilità per l’anno venturo, una manovra che alleggerisce il carico fiscale ma che mal si rapporta con la spada di Damocle degli obbiettivi di bilancio che pende sul nostro Paese. Nei numeri la legge vale tra i 28.5 ed i 31.8 miliardi di euro di cui ben 14 mld saranno finanziati con nuovo deficit (il tesoro dovrà contrarre nuovo debito), la variabilità dell’ammontare delle risorse è determinata dalla cosiddetta “clausola 99”, ancora in discussione con l’UE, ovvero l’ottenimento di nuova flessibilità (possibilità di indebitarsi) in ragione delle spese sostenute per l’emergenza profughi. Dal Governo e da Matteo Renzi sono arrivate le dichiarazioni di soddisfazione per una manovra “espansiva” sì per l’economia, perché prevede un taglio delle tasse, ma anche per il nostro debito, che non ha mai smesso di crescere nonostante gli anni di austerità e che intravede oggi pericolosamente quota 140% del rapporto debito/pil. Ciò che è doveroso sottolineare è come dei ben 28.5 miliardi “solo” 7 riguardano un abbattimento reale delle tasse, di questa quota le misure aventi maggior peso sono l’abolizione delle imposte sulla prima casa (3.5 mld), sugli imbullonati (530 milioni) ed il rinnovo parziale degli sgravi sui contratti a tutele crescenti (834 mln). A questo punto viene naturale chiedersi dove siano impiegate il grosso delle risorse che lo Stato “si fa prestare”: nel disinnescare le clausole di salvaguardia, la vera bomba ad orologeria piazzata sotto Palazzo Chigi che trema, indipendentemente da chi sia il suo inquilino, dovendo ogni anno onorare degli impegni che i nostri conti proprio non si possono permettere.

Sono queste misure le vere spine del fianco dell’Italia, una sorta di assicurazione che il nostro Paese rispetti i vincoli del Fiscal Compact. Così al Ministero dell’Economia si fanno i salti mortali non solo per limitare il rapporto deficit/pil (cioè tra il disavanzo annuo ed il prodotto interno lordo) ma anche per abbattere il debito complessivo (così impone lo sciagurato trattato) di un 5% la quota eccedente il 60% del rapporto debito/pil. Detta così, lo ammettiamo, sembrerebbe un girotondo contorno ma se è vero che in economia anche i meccanismi più complessi hanno un fondo di semplicità basta cimentarsi nei cosiddetti “conti della serva”: il nostro debito ammonta a circa 2200 miliardi di euro ed è il 138% del Pil, vuol dire che la quota eccedente il 60% è il 78% ovvero circa 1200mld di euro che dovremmo ridurre di un 5% ogni anno quindi di circa 60 miliardi. Di certo non c’è bisogno di un ministro per capire che nemmeno gli impeccabili (lo sono davvero?) teutonici riuscirebbero a sfuggire a questa ghigliottina, tuttavia il Fiscal Compact è stato imposto tra gli altri Paesi in difficoltà anche all’Italia come strumento per “rassicurare” i mercati o, a voler pensare male, per tenere sotto scacco Roma.

Fatto sta che le agognate clausole di salvaguardia valgono per il 2016 quasi 17mld di euro (disinnescate come detto con nuovo deficit) e peseranno nel biennio 2017-18 per circa 56.5 mld (DATI: ufficio studi CGIA). Facile capire come di fronte a questi numeri sbiadiscano i posizionamenti della minoranza Dem, che ha fortemente criticato l’innalzamento dell’uso del denaro contante a 3000 euro, e le polemiche di Salvini e del M5S sul canone Rai in bolletta, seppur la misura possa definirsi “vile”. Se l’ipotetico allentamento della lotta all’evasione è un falso problema, non sta lì né la sostanza del problema né la sua soluzione, il Canone Rai in bolletta fa si scendere l’ammontare del dovuto a circa 100 euro, ma sarebbe stato opportuno accompagnare la misura con una vera “liberalizzazione” (usiamo questo termine improprio) del rapporto tra i cittadini e l’azienda di Stato. Briciole comunque, di fronte al fatto che dopo che da tutte le parti si invocava la fine dell’austerità quasi nessuno, a partire dal cdx, se l’è sentita di dire ciò che veramente comporta.

Comporta rallentare in maniera significativa la messa in ordine dei nostri conti per evitare l’introduzione di nuove tasse e ridurne alcune che già oggi esistono. Ed è giusto, il governo ha deciso di agganciare la ripresa allentando il fiato del fisco sul collo della nostra economia; al di là di alcuni capitoli di spesa o risparmi obbiettivamente infelici va dato atto al Governo ed a Matteo Renzi di essersi incuneato nelle difficoltà politiche di Bruxelles, costretta oramai a spingere elettoralmente i governi considerati “amici” con maggiori concessioni in materia di finanza pubblica, per arginare l’avanzata delle “destre euroscettiche” (definizione decisamente antipatica) e dei movimenti fuori sistema. E’ questo quadro a lasciare la maggiore amarezza per l’asimmetria tra il coraggio, ammesso che ce ne voglia, dimostrato nel maggior indebitamento ed il poco polso avuto nel ridurre la spesa. Proprio sulla Spending Review inciampa il Governo, la revisione della spesa si è arenata tra i “ghe pensi mi” di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Renzi) che ha sostituito Roberto Perotti come commissario alla revisione della spesa, reo secondo il Presidente del Consiglio di aver dimostrato “troppa audacia” nei tagli giudicati come necessari. E’ questo il capitolo che conferisce poco equilibrio alla manovra, per la legge “del fondo di semplicità” un Paese con una spesa pubblica abnorme se vuole contemporaneamente ridurre le tasse e tagliare il proprio debito, non può far altro che agire proprio sulla diminuzione di quella spesa.

La Spending Review invece si fermata a meno di 6 mld, la metà dei dodici che ci si aspettava. Questo perché alcuni capitoli dei nostri bilanci non possono essere semplicemente “tagliati”, sarebbe semplicemente macelleria sociale, ma debbono essere riformati nella loro stessa natura. Riformare con ampio respiro settori come la Sanità, che da anni vivono una ritirata scomposta dello Stato che senza un briciolo di strategia costringe i cittadini a rivolgersi a strutture private con relativi costi che salgono. Le misure messe in campo dal governo sono ben lontane da questi orizzonti, in special modo sulle pensioni. Non ha esitato infatti Tito Boeri, Presidente Inps, a pungolare il governo sul mancato affondo su, ingiusti, diritti acquisiti e privilegi: vitalizi e pensioni cumulate (ogni cinque erogate corrispondono quattro persone fisiche) che non valgono le decine di miliardi di cui avremmo bisogno ma che alla fine pesano quando non riusciamo a finanziare gli investimenti (fermi al 1.5% del Pil) e a ridurre stabilmente il cuneo fiscale.

Sono proprio le eccessive coperture in deficit a determinare gli elementi di instabilità della manovra 2016, questo maggior indebitamento è una vera e propria scommessa che la crescita e l’inflazione tornino se non a volare, a staccare almeno i piedi da terra. Avremo bisogno infatti di un PIL in crescita di circa il 2% per assorbire senza troppi contraccolpi i 14mld aggiuntivi di deficit, il tutto in un quadro di inflazione che torni a crescere in maniera apprezzabile (questa se da una parte erode i nostri risparmi contribuisce a deprezzare anche il debito che sostanzialmente “vale di meno” perché a valere meno è la moneta). Una scommessa perché i momenti di difficoltà di Bruxelles potrebbero finire e se l’Italia non dovesse raggiungere gli obbiettivi potrebbe essere costretta a ritornare sul capitolo tasse, stavolta con la necessità di aumentarle, che vorrebbe dire veramente una mezza catastrofe oltre a veder svanire anni di sacrifici. Ciò che i Governi dovranno evitare come la peste nei prossimi anni è ripetere il balletto sulle imposte visto nel passato recente, non c’è nulla di più dannoso per imprese e famiglie dell’incertezza su quanto si dovrà al fisco.

Così verrebbe da dire che il dado è tratto, o che la fortuna aiuta gli audaci, in ogni caso, per il bene del nostro Paese, incrociamo le dita.

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