Per dirla con Trump, “America first”.
La politica estera del tycoon è concepita come un gioco a somma zero.
Nei giochi cooperativi, entrambi i giocatori possono ricavare benefici a fronte di sacrifici.
In quelli competivi, le risorse sono limitate e il primato di uno significa per l’altro la sola sofferenza di sacrifici.
Questo paradigma implica che le risorse di sicurezza che gli States impiegano all’estero sono uno spreco per il mantenimento della sicurezza interna. Ad esempio, le forze NATO nel Continente europeo rappresentano per Trump un impegno degli Stati Uniti non corrisposto dagli alleati.
Se la Cina beneficia degli scambi globali in sede della World Trade Organization, i lavoratori americani vedranno le proprie fabbriche chiudere e perderanno il proprio lavoro.
“L’Americanismo è più importante del globalismo”, per richiamarsi ad uno dei suoi statement.
Gli interessi americani sono superiori a quelli degli alleati, e quest’ultimi dovrebbero contribuire in maniera sostanziale al raggiungimento di “better deals”, in cui gli USA siano maggiormente tutelati.
Non nascondendo di voler colpire i terroristi dovunque essi siano, in barba al diritto internazionale.
Il politologo Walter Russell Mead ha definito questa filosofia politica come “populismo di Jackson”, dal nome del settimo Presidente.
E’ una tradizione dei primi coloni protestanti americani, costretti alla sopravvivenza in un ambiente ostile, con limitati approvvigionamenti a disposizione.
Seppur poco presente nel dibattito accademico di relazioni internazionali, è una tendenza ancorata alle radici più profonde dello spirito americano.
Un sentimento molto differente rispetto il neoliberalismo internazionalista del “War President” (definizione data dal noto giornale Foreign Policy) Hillary Clinton, appoggiata anche da grosse fette del movimento neocon.
IL PRESIDENTE DELLA PACE
Ipotizziamo che Donnie divenga il 45° Presidente degli Stati Uniti l’8 Novembre 2016. Le urne vengono chiuse, ed il voto popolare e quello dei grandi elettori sono a suo favore.
Come si comporrebbe la diplomazia di Trump?
L’esecutivo presidenziale condivide poteri in materia d’affari esteri con il Congresso. Il Congresso può limitare i poteri -molto estesi- del Presidente tramite le manovre sul Budget, la conferma delle nomine degli high-ranking officials e la ratifica dei trattati internazionali. Non sappiamo ancora come sarà composta l’assemblea elettiva, ma possiamo ipotizzare che, sia che vincano i Repubblicani che i Democratici, i rapporti saranno -eufemisticamente- complessi.
Il foreign policy establishment, la cricca di studiosi civili e militari che affianca il Presidente nel processo decisionale, è stato sempre bistrattato da Trump.
Cosa farebbe?
Trump chiederebbe maggiori contribuzioni finanziarie agli alleati, sul piano della condivisione delle risorse di sicurezza.
Su quello commerciale, una rimodulazione del TTIP e del TPP, soprattutto sulle tariffe di scambio con la Cina.
Con la Russia, un appeasement, un ritorno a buoni rapporti. Per cui è stato, purtroppo, ampiamente criticato fino a dargli dell’ “utile idiota” per il Cremlino.
Nel nuovo environment internazionale, nell’emersione di sfide globali come il terrorismo, solo la cooperazione fra Mosca e Washington può riportare stabilità.
Non sarà un isolazionista. Bensì, un Presidente che baserà la sua azione sugli interessi commerciali e di sicurezza interna degli States. Una politica “neomercantile”, una politica di pace.