– di Francesco Severa – Schiavi di uno schizzo di fango, come disse qualcuno. Accettiamo ogni giorno che la politica del nostro paese regoli le sue scelte basandosi sulla cronaca giudiziaria; su intercettazioni rubate; su una magistratura che sembra agire sempre con una regolarità inopportuna e sospetta. Lo facciamo da vent’anni. Almeno da quando, nel lontano 1993, un parlamento assediato e terrorizzato da un sistema mediatico-giudiziario che gli aveva dichiarato guerra, alzò bandiera bianca su Montecitorio e firmò la resa incondizionata modificando l’articolo 68 della Costituzione. Con quell’atto si inaugurò la seconda Repubblica, segnata dunque fin nella culla da questa distorsione tutta italiana che vede una parte della magistratura credere di essere depositaria dell’etica del paese: credere che la morale nella vita politica si debba imporre a colpi di inchieste. Non parliamo soltanto di Silvio Berlusconi – l’uomo che sbaragliò la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, formata da forze politiche che con strane metamorfosi erano passate magicamente indenni dalle forche caudine di “Mani Pulite” – e dei suoi processi: parliamo di governi caduti per l’arresto di familiari di ministri in carica; di regioni che cambiano colore politico dopo l’arresto del presidente e le successive elezioni; di ministri – questo per venire a casi più recenti – costretti a dimettersi per intercettazioni sfuggite per caso alla segretezza dei palazzi di giustizia. Lontani da dietrologie golpiste, è fin troppo evidente che esista un problema nei rapporti tra la magistratura e la politica in questo paese. Un problema, le cui cause non possono evidentemente intestarsi ad una sola delle due parti.
Da un lato abbiamo infatti una certa magistratura, sia giudicante, sia soprattutto inquirente, la cui opera, in questi anni, ha sottoposto a dura prova le menti che ancora credono non essere un mero esercizio di buoni propositi il principio di imparzialità che la nostra Costituzione sancisce per l’attività giudiziaria. Nessuno vuole negare il fatto che qualsiasi atto emesso da un tribunale nasconda in se una scelta politica, né nessuno nega il fatto che i magistrati siano persone, sottoposte dunque alla necessaria influenza della loro coscienza, della loro visione del mondo. Il problema nasce però quando il ruolo dell’attività giudiziaria non è visto più come ruolo di garanzia dei singoli nella difesa di determinati beni giuridici, che gli appartengono e che vanno garantiti in quanto ritenuti meritevoli di tutela da parte della legge, ma è visto come strumento per interessarsi “ai fenomeni, ai determinismi sociologici, alle classi, alle masse”, come dice Piero Tony. Questa idea di sostenere la lotta politica con gli strumenti della giustizia nasce da lontana: è il 1971 quando tre insigni giuristi presentano “Per una strategia politica di Magistratura Democratica”: un testo nel quale apertamente sostengono di dar vita ad una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principi eversivi dell’apparato normativo borghese”. La giustizia come strumento per la lotta di classe. Evidentemente questa forte connotazione marxista oggi è più rara, ma questa visione strumentale alla politica dell’azione giudiziaria ha avuto l’effetto di influenzare degli atteggiamenti. Non solo l’idea di instradare procedimenti penali finalizzati più a dimostrare teoremi accusatori assai traballanti e a volte perfino ispirati a esigenze mediatiche piuttosto che processuali, che a constatare la reale e possibile sussunzione di fatti alle fattispecie del codice. Ma anche il fatto che sia diventata così comune, quasi dunque da doversi considerare normale, la discesa nell’arena politica, sull’onda di inchieste dal grande clamore mediale, di magistrati, che riescono perfino ad arrivare a ricoprire incarichi di governo.
Dall’altro lato abbiamo una politica che ha perso il ruolo primario che le compete, anche forse per una sua responsabilità storica. Una politica che ha calato le braghe davanti ad un potere – di questo si tratta – che sembra onnipotente. Qualche tentativo di reazione vi è stato, tutti falliti tra l’altro: potremmo citare il decreto Biondi o i più recenti lodi Schifani e Alfano. Tentativi legittimi di riaffermare un principio che la nostra Costituzione stabilisce all’articolo 101, secondo comma: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Quel “soltanto” non sancisce solo una chiara indipendenza da qualsiasi forma di influenza esterna del potere giudiziario, ma pone anche un limite all’azione della magistratura: un limite nella volontà del popolo, che si esprime nella legge emanata dal parlamento. Quella volontà non può essere distorta né a sua volta influenzata dall’esterno; verrebbe meno l’intero sistema. Ma la causa della situazione di cui parliamo non è solo la politica pavida, ma anche la politica vampiresca di chi utilizza le inchieste giudiziarie per creare dei terremoti politici. E’ sotto gli occhi di tutti, per fare un esempio attuale, il caso che, non i magistrati ma i politici stessi, stanno montando intorno all’arresto di Mantovani in Lombardia, con il non certo velato scopo di far cadere l’unica regione in cui ancora il centrodestra governa unito. Insomma, la responsabilità della politica risiede tutta nella sua mancanza di autorevolezza; nella sua crisi profonda, che la mette in balia di populismi ridicoli e lascia spaventosi vulnera che rischiano di essere riempiti, per necessità o per interesse, da altri. Qualcosa però si sta muovendo. Scelte di questo governo renziano, passate sotto silenzio, ma che a ragionarci sembrano figlie della consapevolezza, ereditata da questo ventennio berlusconiano in cui il conflitto con la magistratura è arrivato ai suoi livelli più alti, che il primato della politica vada oggi più che mai riaffermato. Prima di tutto la scelta di far eleggere vice-presidente del CSM un uomo che al momento della sua elezione ricopriva un incarico di governo: prima volta nella storia repubblicana Giovanni Legnini, sottosegretario al ministero dell’Economia, lascia il suo ufficio in via XX settembre per trasferirsi direttamente a Palazzo dei Marescialli. Poi quell’articolo quasi innocuo, rubricato “Disposizioni per il ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni”, che inserito nella riforma Madia, manda in prepensionamento quasi 400 magistrati nel 2015 e altri 900 entro il 2018: praticamente tutta la vecchia guardia mandata a casa. Forse la testimonianza che, venuto meno il bipolarismo muscolare, la necessità di mettere mano ad una seria, profonda e coraggiosa riforma della magistratura è oramai sentita da tutto l’arco costituzionale. Sperare nella resipiscenza della sinistra, nel superamento del suo spirito giustizialista – giustizialista per convenienza – forse è troppo, ma non si può che gioire quando un Presidente del Consiglio dichiara che il parlamento non può fare “il passacarte delle procure”. Sarà questo il vero Nazareno? Chissà se forse allora non sia ora di mettere di nuovo mano a quell’articolo 68 della Costituzione, la cui modifica, ormai più di venti anni fa, ci ha trasformato in una repubblica populista fondata sui processi!