56 ANNI FA IL GESTO ESTREMO DEL GIOVANE CECOSLOVACCO CHE VOLEVA DENUNCIARE L’OPPRESSIONE DEL REGIME COMUNISTA.
A cura di Giorgio La Porta – Il 16 gennaio di ogni anno il primo pensiero del mattino è per Jan Palach, il ventenne simbolo della Primavera di Praga che con un gesto estremo contro il regime sovietico si dette fuoco per protestare contro la restrizione delle libertà civili nella vecchia Cecoslovacchia.
La prima cosa che mi viene in mente è aprire un video dell’epoca per rendermi conto delle sfumature in bianco e nero, per respirare quella stessa voglia di Libertà del popolo cecoslovacco.
Mi perdo tra le immagini, la sofferenza, le canzoni e le emozioni di quei giorni.
Voglio però raccontare i fatti dando prima di tutto un contesto agli eventi.
Siamo nel 1968, gli anni della contestazione che dagli Stati Uniti avevano infiammato gli animi di tanti giovani ribelli. Queste contestazioni e le istanze di libertà non si erano fermate neanche davanti ai muri dell’Unione Sovietica e così a Praga erano riuscite in qualche modo prendere piede. In quel momento era appena salito al potere Alexander Dubcek che per primo dette delle aperture ad un socialismo democratico dal volto umano, concedendo diritti civili, allentando la censura sulla stampa e iniziando a lavorare per la divisione del Paese in due nazioni indipendenti.
Il Governo comunista dell’Unione Sovietica però non gradì tali aperture e decise così di destituire il nuovo leader e farlo sostituire da un direttorio comunista e fece invadere la Cecoslovacchia da 600 mila uomini e 7000 carri armati.
L’Occidente rimase impassibile, tra la paura di una terza guerra mondiale e l’indifferenza generale.
Un gruppo di giovani universitari cecoslovacchi però non si arrese così facilmente e prese ad esempio il gesto disperato dei monaci buddisti che nel ’63 si dettero fuoco per protestare contro l’oppressione del Vietnam del sud. Questo caso fece il giro del mondo e attrasse l’attenzione di tutto il mondo sulle persecuzioni vietnamite.
Questo gesto estremo fu così emulato da Jan Palach, ventenne cecoslovacco, che la mattina del 16 gennaio andò nella piazza principale di Praga e di fronte alla scalinata del Museo compì questo gesto estremo. Vi fu in particolare un testimone al tragico evento e vi riporto questo passo:
“Un tranviere fu il testimone più meticoloso dell’immolazione. La sua attenzione fu attirata da un ragazzo ai piedi della scalinata, davanti al museo nazionale, in piazza Venceslao: si stupì nel vedere che si inzuppava gli abiti con il contenuto di una lattina bianca: appena si accorse che aveva acceso con gesto rapido un fiammifero fu abbagliato da una vampata. L’ urlo di dolore e il corpo in preda alle fiamme che si contorceva sul selciato paralizzarono la folla: una folla fitta a quell’ora sulla piazza più vasta della città, la piazza che i carri armati sovietici avevano presidiato a lungo nell’estate. Mille sguardi rimasero puntati immobili, esterrefatti, sulla torcia umana. Il primo a muoversi fu il bravo tranviere che aveva seguito fin dall’inizio le strane, veloci mosse di Jan: si tolse il cappotto e lo gettò sul giovane per spegnere le fiamme. L’udì gridare: “La lettera, salvi la lettera”. E non capì quel che volesse dire. Ci volle un po’ di tempo prima di capire che Jan Palach si era sacrificato “per scuotere la coscienza del popolo”, per spezzare il clima di rassegnazione che imprigionava la gente in una resistenza puramente morale, intima, destinata a riassorbirsi col tempo, con la routine quotidiana e i suoi inevitabili compromessi. La speranza poteva essere riposta soltanto in eventuali remoti avvenimenti esterni, indipendenti dalla volontà della gente di Boemia, Moravia e Slovacchia. Il gesto di Jan Palach era contro questa situazione stagnante e affliggente. Non era un suicidio per disperazione, non era una resa definitiva, portata alle estreme conseguenze: era un’azione offensiva”.
Ed ecco alcune parole della famosa lettera che Jan voleva diffondere: “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana”.
I suoi funerali divennero una occasione unica di unità del Paese e si trasformarono presto in una grande manifestazione antisovietica che vide in piazza oltre 600 mila persone.
Il decano della facoltà di filosofia pronunciò un discorso davanti al feretro. “La Cecoslovacchia sarà un paese democratico – disse – soltanto quando il sacrificio non sarà più necessario“. Sulla facciata di un teatro era stata scritta a grandi lettere una frase di Brecht: “Infelice quel popolo che non ha eroi. Ma infelice quel popolo che ha bisogno di eroi”.
Il seme della libertà non solo era stato gettato ma iniziava a germogliare e il nostro dovere è di ricordare questi eroi che hanno combattuto contro le oppressioni dei regimi sangunari e che per questo non meritano menzioni nei libri di storia. Perché chi li scrive ha più simpatia per i carri armati sovietici piuttosto che per il sacrificio di questi giovani eroi, padri della nostra Libertà.