28pol1f01-camera– di FRANCESCO SEVERA – “Siamo in una fase storica di trapasso tra un mondo che è tramontato o volge al tramonto ed un altro che si affaccia, si delinea all’orizzonte con luce incerta.” E’ il 4 marzo del 1947 quando Aldo Bozzi, giurista liberale, pronuncia queste parole durante i lavori dell’assemblea costituente. Troviamo in esse quella profonda consapevolezza del ruolo così alto che in quel momento quegli uomini stavano svolgendo nel delineare i tratti della Costituzione di una nuova nazione. E’ forse fuori luogo paragonare quel momento a quello attuale; anzi a seguire la cronaca che ci arriva dall’aula di palazzo Madama in questi giorni sarebbe forse un paragone grottesco. A sentir parlare però di emendamenti fatti per accontentare minoranze interne facili alla protesta quanto restie alle scissioni; di record mondiali dell’ostruzionismo – ricordiamo gli 87.730.460 emendamenti del senatore Calderoli -; di “canguri” che servono a tagliare discussioni e dibattito, forse rischiamo, per una materia così delicata com’è quella costituzionale, che si occupa di sancire le norme fondamentali che organizzano e disciplinano il nostro vivere insieme, di concentrarci più sulle lotte politiche che si stanno giocando, piuttosto che sul contenuto di una riforma che ci dovrebbe traghettare nella terza repubblica. Ecco perché tenteremo qui di sintetizzare, senza alcuna pretesa di completezza, i tratti più importanti del d.d.l. Boschi.

SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PERFETTO – i paesi dell’Unione Europea ad avere un parlamento bicamerale (cioè con due differenti camere) sono 13 su 28. Di questi 13 le due camere solitamente differiscono per funzioni o per tipo di rappresentanza. In Italia al contrario abbiamo due camere gemelle, che cioè hanno le stesse identiche funzioni e sono chiamate in maniera paritaria ad esaminare ed approvare le proposte di legge: tutto questo comporta un incredibile allungamento dei tempi di approvazione. Sulla necessità di superare questo sistema sono d’accordo tutte le forze politiche. A dividerle è il modo in cui farlo. Eliminare o no il Senato? La riforma oggi in discussione propone di mantenere un sistema bicamerale, ma assegnare al Senato delle funzioni specifiche, in particolare quella di essere l’istituzione che colleghi lo stato e gli enti locali. Per questo il nuovo Senato sarà composto da 95 senatori, eletti dai consigli regionali tra i loro membri, con un senatore per ogni regione eletto tra i sindaci, e 5 nominati dal Presidente della Repubblica per 7 anni, che sostituiranno i senatori a vita. Il Senato discuterà in posizione paritaria con la Camera solamente le leggi costituzionali e quelle che riguardano le materie puntualmente elencate nel nuovo art. 70 della Costituzione: il resto sarà approvato dalla sola Camera con la possibilità per il Senato di proporre – solo proporre – modifiche entro tempi stretti e ben indicati.

AUTONOMIE – l’intervento che la riforma Boschi compie sul titolo V della Parte II della Costituzione non ha avuto una grande risonanza mediatica, per quanto abbia invece un grande significato politico. Negli ultimi due grandi tentativi di riforma della nostra Costituzione, nel 2001 ad opera del centro-sinistra e nel 2005 ad opera del terzo governo Berlusconi (solo quello del 2001 è andato a buon fine), si era sempre tentato di aumentare i poteri e le competenze delle autonomie locali, in quanto le si riteneva l’organismo più vicino al cittadino. Nel 2001 venne modificato l’articolo 117 della Costituzione, prevedendo un vero e proprio potere legislativo per le regioni, totale in determinate materie e concorrente con quello dello Stato in altre. Oggi si fa marcia indietro! Forse sull’onda degli scandali degli ultimi anni, che hanno trasformato le regioni – a torto? – nel simbolo dello spreco e della corruzione, la riforma oggi in discussione modifica l’art. 117, innanzitutto aumentando le competenze esclusive dello stato e relegando le competenze regionali a poche specifiche materie. Ancora più interessante è da notare il fatto che si inserisce uno specifico comma che prevede la possibilità per lo stato di intervenire anche in settori di esclusiva competenza regionale ove lo richieda “la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. E’ una svolta storica dopo vent’anni passati a parlare di devoluzione e federalismo, eppure una svolta che sta passando quasi inosservata.

COSTI DELLE ISTITUZIONI – Sicuramente girando per le strade di Roma, magari proprio a piazza di Montecitorio, e fermando qualche passante pochi saprebbero rispondere alla domanda: “Cos’è il CNEL?” Eppure il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro è un organismo previsto dall’articolo 99 della Costituzione, che sostanzialmente dovrebbe proporre leggi al parlamento, ma che nella sua inutile vita, dal 1957 ad oggi, ne ha proposte appena 14. Ecco nella riforma il CNEL viene abolito, insieme alle province. Riguardo gli stipendi invece innanzitutto viene abolita l’indennità per i senatori, che, in quanto consiglieri regionali e sindaci, già percepiscono stipendio. Viene poi posto un tetto allo stipendio dei consiglieri regionali, che non potranno percepire emolumenti superiori a quelli percepiti dai sindaci dei comuni capoluogo di Regione.

RAPPRESENTANZA – Due novità riguardano infine la partecipazione popolare alle scelte legislative tramite referendum. Sappiamo che oggi l’unico referendum ammesso in Italia è quello abrogativo, il quale deve essere proposto da almeno cinquecentomila cittadini e, portata al voto la proposta, è approvata se hanno partecipato al voto il 50% più uno degli aventi diritto. Restando fermo questo punto, la riforma prevede, in caso la proposta sia avanzata da ottocentomila elettori, che basti la partecipazione al voto del 50% più uno del numero di votanti delle ultime elezioni politiche. Saranno inoltre possibili referendum popolari propositivi e d’indirizzo.