– di Filippo Del Monte – La Grande Guerra è stato il primo vero conflitto di massa della storia umana. Fu inevitabile per lo scontro militare assumere anche dimensioni politiche; l’esercito di massa fu l’espressione in armi dei contrasti politici e sociali esistenti nella società civile. Con questa premessa è chiaro che tutti gli attori impegnati nel conflitto, dagli alti comandi passando per gli ufficiali inferiori fino ai soldati semplici abbiano avuto una “funzione politica” ben precisa.
Questo scritto vuole soffermarsi proprio sulla dimensione politica della partecipazione al conflitto – con le riflessioni che ne sono derivate – degli ufficiali inferiori, quindi tenenti e sottotenenti, a diretto contatto con i soldati in trincea. Nelle prime settimane di guerra il Comando Supremo aveva ipotizzato per gli ufficiali inferiori la funzione di “mediatori” tra il fante-massa ed i comandi superiori prendendo a modello proprio il comportamento della borghesia – che forniva il grosso dei quadri di complemento al Regio Esercito – nei confronti delle classi subalterne e della classe dirigente. Quello che era stato teorizzato come un “esperimento sociale” da parte del Comando Supremo risultò essere però un “fattore naturale“: il tenente era effettivamente una “cinghia di trasmissione”, una sorta di “ponte sociale” tra i soldati ed i comandanti.
Secondo le circolari ed i manuali fatti circolare tra gli ufficiali, a questi ultimi spettava il compito di essere non solo dei comandanti, ma anche dei “pedagoghi” dei fanti; in altre parole spettava ai tenenti il compito di educare politicamente la massa in grigioverde. La funzione di “educatore civico” del tenente borghese era legata imprescindibilmente alla necessità di conservare intatte le strutture sociali e culturali d’una Nazione che per la prima volta nella sua storia aveva “armato il popolo” coscientemente ma senza sapere quali sarebbero state le conseguenze. Il problema teorico legato all’educazione politica delle masse si scontrò inevitabilmente con la dura realtà della guerra di trincea e con la conseguente “alienazione” del soldato e dell’ufficiale rispetto al mondo circostante. Un’alienazione a cui non sfuggivano nemmeno gli ufficiali “politicizzati” con due conseguenze: o il movente politico della guerra restava intatto proprio perché “estraneo” alle logiche del combattimento puro e giudicato “giusto a prescindere” – come nel caso dell’irredentista Giani Stuparich – o spariva del tutto inghiottito dalla lotta per la sopravvivenza come ebbe a notare il dirigente dell’Associazione Nazionalista Gualtiero Castellini, capitano decorato di medaglia d’argento morto in Francia nel 1918.
L’impossibilità di educare masse apolitiche la notano tra gli altri il tenente Carlo Salsa – che nel suo stupendo diario-romanzo “Trincee” ci porta per mano nella prima linea di fanteria sul Carso – e perfino Emilio Lussu, il teorico del “sardismo” ed antifascista, tenente della Brigata Sassari durante la guerra. La “politicizzazione” della guerra è una caratteristica propria degli ufficiali di complemento – che non affrontano il conflitto solo dal punto di vista “tecnico” come i loro colleghi formatisi in accademia – che, quando non hanno direttamente partecipato alla campagna interventista, hanno comunque l’etica del dovere come essenza della loro formazione giovanile. L’idealismo ed il “garibaldinismo” di questi giovani tenenti però spariscono presto, fin dai primi scontri del giugno-luglio 1915 quando alle cave di Selz o sull’Isonzo le ondate delle nostre fanterie sono fermate dai reticolati e dalle mitragliatrici austriache. La strada per sopravvivere in questa guerra non è quella di andare all’attacco in testa ai propri soldati con sciarpa azzurra e sciabola sguainata come nei primi mesi del conflitto, se esiste una possibilità di uscirne vivi è proprio quella di lasciare da parte gli “inutili eroismi”.
Questa posizione matura proprio nel fango delle trincee, negli affollatissimi budelli dei camminamenti, durante le lunghissime ore di immobile attesa prima degli assalti suicidi che gli alti comandi ordinano senza rendersi conto di quale sia la reale situazione in trincea. Se le caratteristiche principali del soldato italiano sono la rassegnazione ed il fatalismo non è così per gli ufficiali inferiori; essi arrivano in maggioranza alla conclusione – pur attraverso strade diverse – che ad essere “inconsapevole” e marcia non è solo la casta degli ufficiali superiori ma tutta la classe dirigente italiana.
Eppure la funzione di “mediatori sociali” dei tenenti non viene mai meno dal maggio 1915 fino alle nere giornate di Caporetto nell’ottobre del 1917. Questi ufficiali quando parlano tra loro esprimono dubbi, paure, rancori verso quei colonnelli e generali che pensano a stappare “vini d’onore”, a fare discorsi patriottici, a punire i soldati ed a “dare pipe” a sottotenenti e tenenti giudicando senza vedere, parlando senza sapere cosa effettivamente sia la trincea. Quando però c’è da balzare in testa ai loro fanti correndo come forsennati verso le trincee austriache nessun tenente esita, elmetto ben calcato in testa, rivoltella in mano ed il grido “Savoia!” prorompe nel mutismo gelido e mortifero della terra di nessuno prima della “tempesta d’acciaio“. L’etica del dovere vince la dura battaglia psicologica con la stanchezza ed il cinismo. E’ proprio questa etica del dovere a tenere in vita quel barlume di “movente politico” che toglie alla guerra la cappa di scontro puro e semplice tra uomini trasformati in animali.
Le riflessioni politiche degli ufficiali della fanteria di linea sono un unicum non comparabile con altri corpi: la guerra della Regia Marina è completamente altra cosa, quella degli aviatori mantiene ancora un carattere romantico, gli ufficiali di cavalleria sono tutti d’estrazione aristocratica, gli alpini combattono una guerra particolare sulle vette innevate – la cosiddetta “guerra bianca” – con tratti cavallereschi. Tutta la brutalità dello “scontro di materiali” la sperimenta sulla propria pelle il fante-massa, il fante-contadino e con esso il tenente che simboleggia l’autorità certo, ma anche la “guida” per aver salva la pelle. Da qui il rapporto particolare tra l’ufficiale ed i propri soldati, quei tenenti appena diplomati o laureandi che chiamano “figlioli” fanti dell’età dei loro padri, quell’affetto sincero di quei burberi fantaccini inzaccherati per i loro imberbi ufficiali comandanti.
Nei gesti semplici e sempre uguali della vita di trincea si esprimeva realmente la funzione di “cinghia di trasmissione” degli ufficiali inferiori, non servivano grandi discorsi patriottici per educare le masse in armi ma bastava l’esempio; era l’idea che si trasfigurava nella persona – prima ancora che nell’immagine sociale – del “tenente”. La funzione pedagogica dell’ufficiale era “metapolitica” e non politica come invece ritenevano allo Stato Maggiore. Il giornalista e scrittore cattolico-nazionale Giosuè Borsi (sottotenente volontario di fanteria caduto nel 1915) nelle sue lettere alla madre e Carlo Salsa hanno spiegato bene, seppur con stili e toni diversi, questa sorta di “rapporto sociale” figlio della trincea. Come da un rapporto subordinato e coattivo come quello tra soldato ed ufficiale potessero sorgere stima e fiducia reciproche è stata la grande domanda a cui gli intellettuali delle sinistre socialista e comunista coevi non riuscirono a rispondere ed è anche per questo che da sinistra non si riuscì ad interpretare bene il fenomeno del combattentismo prima e del fascismo poi nell’immediato dopoguerra.
Le giornate di Caporetto (24 ottobre – 19 novembre 1917) sono il banco di prova non tanto per il Regio Esercito quanto per tutta la “Nazione mobilitata” ed in ultima istanza per il sistema politico. I soldati in prima linea combatterono – le ultime ricerche storiche lo hanno finalmente portato alla luce – ma furono sopraffatti dalle infiltrazioni delle Stosstruppen germaniche. Furono le demotivate, stanche e sfaldate truppe di riserva a crollare psicologicamente prima ancora che militarmente causando quella che è passata alla storia come la “rotta” di Caporetto.
Ma Caporetto fu anche una sorta di “laboratorio rivoluzionario” mentre in Russia scoppiavano le agitazioni che avrebbero portato alla deposizione dello zar ed all’instaurazione di un governo provvisorio socialista rivoluzionario. Gli atti di insubordinazione e rivolta (che nel 1917 interessarono gli eserciti di tutte le Nazioni belligeranti) dei soldati italiani nelle fasi concitate della ritirata spinsero qualche intellettuale in armi – tra gli altri Ardengo Soffici e Curzio Malaparte – a domandarsi se Caporetto non fosse effettivamente il primo segnale d’una “rivoluzione italiana” di massa. Nella “Rivolta dei santi maledetti” Malaparte – che prima di essere nominato ufficiale aveva fatto la “gavetta” da soldato semplice e conosceva quindi la mentalità dei fanti – tenta proprio di sciogliere questo nodo; implicitamente la domanda a cui rispondere è quanta carica eversiva abbia il popolo dotato dei fucili e quindi dello strumento per fare la rivoluzione.
La risposta – anche per intellettuali definiti o autodefiniti “populisti” – non può che essere una: senza classe dirigente la rivoluzione non può neanche scoppiare. E questa rivoluzione non scoppia proprio perché gli ufficiali inferiori restano ai loro posti ed assolvono alla loro funzione sociale, dovendo a tratti – stavolta sì – reprimere atti d’insubordinazione. Caporetto fu una gigantesca bomba inesplosa perché la rivolta fu espressione della stanchezza delle truppe e non di un disegno politico eversivo predefinito, però è fuor di dubbio che qualcosa dopo quella battaglia cambiò. Il Piave e Vittorio Veneto sono l’espressione fulgida di questo cambiamento, di una guerra che da “coattiva” divenne effettivamente “volontaria” e “politicizzata“.
Il 1917 è l’anno di gestazione e di nascita di quella concezione politica, di quello “stato d’animo” noto come “trincerocrazia” e cioè dell’idea che la nuova classe dirigente del Paese sarebbe sorta dalle trincee. Gli ufficiali di prima linea si definirono “trinceristi” tra loro, credettero di essere una sorta di casta a parte, svincolata dalle briglie della società civile che non riusciva a capirne bisogni ed aspirazioni. Un esempio: durante una licenza a Milano dopo mesi di servizio ininterrotto sul Carso, il tenente Carlo Salsa si ritrovò ad essere contraddetto da un civile sulla gestione della truppa in trincea. Il giovane ufficiale si era trovato innanzi il classico “imboscato” e stratega da salotto rappresentante della vecchia classe politica liberale e della borghesia panciuta e pantofolaia che aveva voluto la guerra ma che nemmeno un minuto aveva passato in trincea o nelle retrovie. Anche dall’atteggiamento di certa borghesia cittadina nacque l’ostilità dei futuri reduci nei confronti della “vecchia italietta”.
Nei giorni tetri di Caporetto non furono gli esagitati rivoltosi a prendere il controllo dei fanti ma gli ufficiali “mediatori”; fu così che la rivoluzione italiana perse – ammesso che ci sia stata – la sua carica popolare per diventare patrimonio d’una élite. La rivoluzione nazionale avrebbe avuto i suoi ispiratori ed i suoi capi negli ufficiali di complemento. Al contrario della Russia che ebbe la sua rivoluzione come conseguenza della sconfitta militare, in Italia per avere la rivoluzione la guerra si doveva vincere e questa vittoria non avrebbe dovuto avere macchie, avrebbe dovuto essere sicura, netta, cristallina, definitiva. Da qui il Piave e l’offensiva finale di Vittorio Veneto; da qui la trasformazione di Caporetto in “capo eretto” per citare il fortunato slogan ideato dagli “ufficiali P” (propagandisti) nei giorni della battaglia d’arresto.
Negli anni della vigilia, dell’attesa febbrile d’un conflitto palingenetico, gli intellettuali militanti della classe media, gli alfieri della rivoluzione conservatrice italiana, attesero con ansia la “prova suprema” con cui potersi misurare e conquistarsi il diritto a governare il Paese così da strapparlo dalle grinfie di una classe politica traffichina, di vedute ristrette, più attenta alla pancia che al cuore, vagamente “gerontocratica”. La guerra mondiale fu quella prova suprema; i giovani ufficiali espressione della classe media si conquistarono con il sangue il diritto ad essere anche l’ossatura dell’Italia vittoriosa dopo esser stati l’ossatura dell’Italia in armi.
La carica rivoluzionaria delle giovani generazioni dopo la guerra non poteva di certo essere incanalata nelle logiche di contrapposizione classista proprie del Partito Socialista o dei gruppi d’estrema sinistra; essa avrebbe necessariamente dovuto prendere la strada “nazionale” ed interclassista. La guerra s’era fatta per la Patria e per la Patria si sarebbe fatta la rivoluzione. Le contrapposizioni, le spaccature e le divisioni del vecchio fronte interventista e dei “trincerocrati” nel primo dopoguerra non oscurarono comunque l’obiettivo primario che restò sempre – pur tra le differenze nei metodi e negli scopi – la rifondazione dell’Italia sulle basi di uno Stato nuovo. I pilastri di questo “Stato nuovo” poi potevano essere quelli dell’autoritarismo (nazionalismo), della democrazia organica (arditismo), del libertarismo (futurismo politico) o di puro sperimentalismo rivoluzionario (fiumanesimo) ma resta il fatto che questo gigantesco calderone che diede inizio alla “rivoluzione conservatrice” sfociata nel fascismo fu espressione dell’esperienza bellica degli ufficiali di complemento. Una pagina questa purtroppo ignorata nel centenario della Grande Guerra tutto incentrato sulla santificazione dei disertori, dei traditori e del pacifismo fine a sé stesso.