A cura di Francesco Severa – Lo possiamo dire con impeto liberatorio e inflessibile convinzione. Il giustizialismo è una cazzata. Ma una cazzata pericolosa. Un’idea letale nella sua banalità, che tuttavia riesce, oramai da un quarto di secolo, a dominare un’area non piccola del nostro panorama politico, come anche della nostra pubblica opinione. E questo suo elemento di tossicità nasce da un distorto appello, tutto ideologico, a quella che dovrebbe rappresentare una componente essenziale di qualsiasi civile convivenza, la legalità. Ma per il giustizialista seriale la legalità non è semplicemente rispetto delle regole e in esse della libertà altrui; non è la semplice, asettica, diretta, doverosa adesione alle norme che in comune scegliamo per regolare la nostra vita insieme; non è la morale del corretto affidamento all’altrui senso della responsabilità. Essa diviene al contrario giudizio di condanna non tanto delle azioni, quanto del pensiero. Un bollino di agibilità etica e soprattutto politica, assegnato dall’opera, mai in errore, dei sacerdoti di questa nuova pseudo-religione, i magistrati inquirenti. E se loro divengono sacerdoti è inevitabile che i loro avvisi di garanzia siano vaticini indubitabili e oracoli indiscutibili, ancor di più se indirizzati su quella classe indistintamente criminale dei politici. Insomma quello che fa un magistrato non può che essere giusto. A lui è affidato il sacro compito di purificare un mondo, quello della politica, in cui “non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti”, direbbe Piercamillo Davigo. Ora è a questo punto evidente anche al più incallito degli scettici quanto questa concezione, errata e dottrinaria, dell’opera della magistratura sia servita nel tempo a giustificare un uso – per meglio dire un abuso – tutto politicamente orientato della funzione giudiziaria. L’influenza estrema che indagini e provvedimenti cautelari, la cui elvetica precisione temporale sarebbe un dato difficile da ignorare perfino per la coscienza più savia, hanno avuto sulle scelte e i destini di governi e amministrazioni locali, di partiti e organizzazioni politiche in questa nostra Italia, ha dell’incredibile. Un processo lungo che inizia negli anni settanta della contestazione, durante i quali si tentò di imporre la dittatura del proletariato attraverso i “pretori d’assalto”; che tocca il suo apice nel golpe bianco di “Mani Pulite”, quando un Parlamento, accerchiato e minacciato, alzò le mani in segno di resa e modificò l’articolo sessantotto della costituzione; che ha continuato a minacciare l’azione di governi di ogni colore, recapitando avvisi di garanzia durante vertici internazionali ovvero arrestando la moglie di qualche ministro. Un’aberrazione questa che ad oggi non sembra essersi esaurita, ma pare al contrario prepararsi ad una nuova offensiva. Basti a provarlo la continua ed inarrestabile sequenza di indagini che sembrano accerchiare il governo ed il partito di maggioranza relativa in Parlamento, come accadeva con il centrodestra fino a qualche anno fa. Basti a provarlo l’aperta e molto mediatica polemica che insigni membri dell’associazione nazionale Magistrati, a cominciare dal suo nuovo presidente, stanno portando avanti sistematicamente contro il governo. Tutto giustificato dall’idea che la magistratura non sia, come dice la costituzione, “un ordine autonomo e indipendente” chiamato ad accertare la responsabilità, sempre personale, dei reati, ma la depositaria del “ruolo strategico di vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo” – parole queste del procuratore di Palermo Paolo Scarpinato. Dovremmo secondo i giustizialisti sostituire alla sovranità popolare della liberal-democrazia, l’elitario e oligarchico potere dei giudici. Anche le scelte dei governi del popolo dovrebbero insomma sottomettersi al puritanesimo manettaro di una magistratura che sola può comprendere come adattare alla modernità i principi che la nostra costituzione contiene. Ora la gravità di questa situazione non risiede tanto nel fatto che un pensiero dai caratteri a dir poco eversivi possa aver influenzato qualche zucca vuota appena uscita da una facoltà di giurisprudenza negli ani settanta: come si sa “nessuno è più pericoloso di un uomo privo di idee, il giorno che ne avrà una gli darà alla testa come il vino ad un astemio”. E’ grave al contrario che questa vera e propria ideologia, che ha distorto per decenni la vita politica di una nazione, non solo sia stata fatta propria da una serie di forze politiche in passato, ma che ancora oggi trovi qualcuno disposto a cavalcare i tintinnii di manette pur di raccattare qualche voto. Non è accettabile una logica da ricatto, che trasforma anche un’indagine fumosa su un politico in un giustificato motivo di sfratto. Non è accettabile che chi si trova a ricoprire una responsabilità pubblica in nome del popolo, chi rappresenta la sovranità del popolo, chi è chiamato a prendere decisioni per il popolo debba sottomettere le sue scelte discrezionali alla paura di essere travolto da uno scandalo giudiziario che troppo volte si rivela un falso allarme. Non è accettabile che le garanzie costituzionali, la presunzione di innocenza in particolare, da evidenti sintomi di civiltà giuridica si trasformino in privilegi anacronistici. Non è accettabile che l’immunità parlamentare, baluardo estremo a difesa dei rappresentanti democratici dalla tracotanza della magistratura, divenga un’ingiusta dispensa. Eppure grande è il desiderio, condiviso non da pochi, di portare avanti nel giustizialismo italiano, come Gramsci già diceva del bolscevismo, la diretta filiazione del giacobinismo. Difronte a questo aberrante e degenerato gigantismo della magistratura nel nostro paese serve una presa di coscienza comune; serve una riforma della giustizia condivisa, che separi le carriere di magistratura inquirente e giudicante; che limiti l’utilizzo della custodia cautelare; che renda l’assoluzione inappellabile; serve a qualcuno il coraggio di un’inevitabile resipiscenza. E’ con consapevolezza ed estremo realismo che dobbiamo essere capaci, una volta per tutte, di dire che Craxi aveva ragione; Cossiga aveva ragione; Berlusconi aveva ragione.