– a cura di Michele Gottardi – Comunque, medaglia d’oro o no, m’interessa solamente una cosa: che la gente capisca che noi istriani, profughi, siamo tutti Italiani”. Con queste parole Graziano Udovisi, uno dei pochissimi sopravvissuti alla pulizia etnica perpetrata dalle truppe partigiane jugoslave durante e dopo la Seconda guerra mondiale, chiudeva una intervista rilasciata nel 2010 a “Il Resto del Carlino”. La sua è la voce di migliaia di giuliani, istriani e dalmati che, nel silenzio dell’Italia e dell’Europa, vennero trucidati addossati di una sola colpa: essere Italiani. Ci riferiamo a quello che, tra il 1943 e il 1947, fu un vero e proprio eccidio durante il quale vennero gettate vive dentro alcune “foibe”, cavità carsiche di origine naturale profonde centinaia di metri, tra le 5.000 e 15.000 persone. La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi guidati da Josip Broz, detto Tito, torturarono e uccisero i “nemici del popolo” ossia fascisti, cattolici, liberali, ma anche semplici uomini, donne e bambini e persino partigiani non comunisti. La persecuzione continuò fino al 10 febbraio 1947, data in cui venne fissato il confine tra Italia e Jugoslavia, con la cessione a quest’ultima delle meravigliose terre istro-dalmate. Fu un momento delicatissimo e soprattutto tragico per coloro che risiedevano ancora in quella che fino ad allora era stata Italia. Circa 350.000 persone si trasformarono in profughi, convinte che se fossero rimaste nel loro luogo natio sarebbe stata la fine. Lasciarono nel nuovo stato jugoslavo case, palazzi, campi, ricchezze e cercarono di rifugiarsi in quella che era la loro patria; ebbero tuttavia un’accoglienza a dir poco scandalosa. Spesso tacciati come “fascisti”, furono derisi, umiliati e talora anche uccisi dalle truppe partigiane in stretto contatto con quelle titine. Significativa è la vicenda che va sotto il nome di “Treno della vergogna”, un convoglio che nel 1947 trasportò ad Ancona centinaia di esuli provenienti da Pola. Giunto alla stazione di Bologna, il treno venne preso a sassate da giovani che sventolavano la bandiera con falce e martello, altri lanciarono pomodori, mentre terzi buttarono addirittura sulle rotaie il latte destinato ai bambini in grave stato di disidratazione. E ancora l’Unità, quotidiano del Partito Comunista Italiano, titolò: “Non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi” (parole ora considerate “xenofobe” o “razziste” proprio da coloro che erano membri di quel partito). Fu così che il dolore di coloro che si consideravano a tutti gli effetti Italiani fu spesso considerato una menzogna, un’invenzione. Era quasi impossibile ricercare e far emergere la verità, l’istruzione pubblica (influenzata, se non addirittura plasmata dall’intellighenzia filocomunista) bandì dai libri di testo la parola “foiba” e addirittura il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nominò Tito Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana! Il silenzio venne imposto per quasi sessant’anni fino a quando, con la legge n. 32/2004, venne istituita la “Giornata del Ricordo”, da celebrarsi il 10 febbraio di ogni anno, con lo scopo di rinnovare “la memoria della tragedia degli Italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Nonostante fossero trascorsi diversi decenni, la volontà di riaprire un capitolo buio della storia d’Italia suscitò scalpore e critiche da parte di intellettuali, ex-partigiani e numerosi politici (tra i voti contrari alla citata legge capeggiarono quelli di Armando Cossutta, Giuliano Pisapia e Nichi Vendola).
Al giorno d’oggi invece quale valore dobbiamo dare a questa ricorrenza? Quale deve essere il nostro atteggiamento? Come bisnipote di una coppia di coniugi trasferitasi per lavoro dalla Provincia di Treviso a Trieste e costretta a fuggire dalla città di fronte all’avanzata delle truppe jugoslave considerata l’adesione al Partito Nazionale Fascista del bisnonno, percepisco io stesso la paura, l’angoscia e, perché no, la rabbia di tanti Italiani che si trovarono nella medesima situazione. Fortunatamente le vicende della mia famiglia ebbero un esito positivo, ma non possiamo non pensare a quelle migliaia di civili che abbandonarono la loro terra, i loro averi e i loro ricordi, invasi da truppe che nulla avevano a che fare con l’italianità dell’Istria e della Dalmazia. Per non parlare di quei martiri che morirono all’interno delle cavità carsiche cosicché nessuno potesse sapere e denunciare la loro fine orrenda; essi sono stati ammazzati una prima volta fisicamente e una seconda dai molti che ancora oggi negano o ostacolano la verità storica. Non è stato semplice anni fa essere pionieri della verità, ma non lo è nemmeno oggi chiedere un più ampio impegno delle istituzioni, in particolar modo della scuola, e una maggiore volontà di andare a fondo in queste vicende. Ogni anno infatti lapidi, monumenti e luoghi simbolo vengono sfregiati proprio da coloro che si definiscono “antifascisti” (violentando così il significato di tale espressione), i testi scolastici faticano a far luce su quegli avvenimenti e la politica sembra lontana, quasi disinteressata.
Spetta allora a noi pretendere con maggiore forza e convinzione che la storia non venga trascurata, che non si dimentichi che quelle terre bagnate dall’Adriatico, intrise di cultura italiana e soprattutto veneta, sono figlie d’Italia e che coloro che vi ritornarono, una volta ristabilita la pace e la democrazia, siano rispettati e tutelati.Una lapide commemorativa posta nei pressi del “Bus de la Lum”, foiba sull’altopiano del Cansiglio (PN) utilizzata dalle truppe partigiane come inghiottitoio per le centinaia di civili uccisi, recita “silentes loquimur” (“silenti parliamo”). A noi il dovere di far sì che gli atroci lamenti emessi dalle vittime dal profondo delle foibe e percepiti dai vivi come un silenzio diventino ben presto un grido di verità e giustizia finalmente conquistate.