-di Dario Lioi- Il decano della storiografia italiana, Giuseppe Galasso, suole spesso dire “Non è vero che la storia è maestra di vita. Se così fosse avremmo già imparato la lezione dai tempi di Adamo ed Eva”. Ebbene, alla luce delle ultime cronache politico-giudiziarie sembrerebbe che questa riflessione sia davvero ascrivibile alla categoria del lapidario, del certo, del dato. La parabola discendente di Gianfranco Fini, cassato dalla vita parlamentare con il miserrimo risultato delle elezioni del 2013, incrocia oggi l’ascissa del piano cartesiano della vita pubblica per proseguire lungo la scia della relatività. L’accusa è infamante, la gestione della vicenda deprimente. Le sorti di una nazione, la sua storia, sappiamo oggi essere state sacrificate (forse) anche sull’altare di una slot machine, di cui Montecarlo è l’eden europeo. Ricordiamo perfettamente la stagione del quarto governo Berlusconi, il braccio di ferro tra la presidenza del Consiglio e quella della Camera, la direzione nazionale dell’ “altrimenti che fai, mi cacci?”, del tentativo di sfiducia parlamentare scampato grazie ai responsabili Razzi e Scilipoti, dello scandalo mediatico riguardante il patrimonio immobiliare di An, deflagrato solo adesso – dopo un’archiviazione fulminea – in scandalo giudiziario. Da quegli eventi, da quella scissione, nacquero i presupposti di esautorazione della legittimità popolare, spalancando le porte al grigiume tecnocratico di Bruxelles. Gianfranco Fini fu all’epoca il protagonista indiscusso della ribalta politica. Portato in trionfo dalle carezze ammiccanti di una sinistra sbaragliata nelle urne, corteggiato – e turlupinato in seguito – da un presidente della Repubblica quanto mai antinazionale, pose la questione morale al centro del dibattito pubblico, utilizzando raffiche di attacchi anche condivisibili nei confronti del governo e del capo dell’Esecutivo. Dal processo breve alla nomina di Brancher, dimenticando però la lezione e gli insegnamenti del padre della dottrina politica italiana ed europea: Niccolò Machiavelli. Il segretario fiorentino – e Carl Schmitt nel Novecento – ha per primo insegnato che la politica è scissa dalla morale, ma non dall’etica pubblica. L’agire politico volto al perseguimento del fine attraverso i più disparati mezzi deve essere posto al servizio dell’etica pubblica, e quindi della nazione, dell’interesse nazionale. Se pure volessimo consegnare alla storia l’annosa questione del conflitto d’interessi berlusconiano, non troveremmo traccia di abbandono della scia machiavellica. Nel caso di specie di questi giorni sì. Lo troveremmo perché il fendente tirato a Fini affonda nelle carni di due comunità: quella nazionale e quella culturale. Della prima abbiamo già detto sopra, della seconda molto ci sarebbe da scrivere, analizzando analiticamente e scientificamente il percorso che dalla salita al governo nel 1994 condusse Alleanza nazionale a sciogliersi nel Popolo delle libertà. La svolta di Fiuggi fu una necessità, non una volontà. Gli eventi si imposero, senza che nessuno costruisse spessi e resistenti argini contro il dilagare del divenire storico. E quindi gli strappi: a Gerusalemme, sul referendum per la fecondazione assistita, ad Atreju nel 2008. Una serie sesquipedale di brusche rotture con il proprio popolo, con la propria gente, con la propria storia. L’idea cinica di perseguire l’obiettivo della presa e del consolidamento del potere a qualsiasi costo è costata la fine di una luna di miele durata, tra alti e bassi, circa un ventennio. Escluso dai palazzi che contano, il MSI era stato redento dai suffragi conseguiti in seguito a Tangentopoli e al crollo della Prima Repubblica. Spalancate le porte della storia ci si è lanciati dentro in un balzo, accecati dalla luce dell’orizzonte riflesso. L’assenza di una salda elaborazione culturale, mista al necessario pragmatismo gestionale, ha affossato l’esperienza della Destra italiana al governo. Questo fallimento avrebbe a che vedere con l’efficienza, se solo l’humus culturale di quel determinato spunto non traesse origine – come ben spiegava Adriano Romualdi – dai fermenti ottocenteschi di un Romanticismo irrazionalista che opponeva il sentimento al bieco calcolo dello scientismo positivista. Il pensiero e azione di mazziniana memoria, le idee che diventano azione di poundiana memoria, l’orgoglio dei vinti, il sangue degli esuli in patria. Dilapidare un patrimonio umano e culturale, prima ancora che immobiliare, è la colpa che gli ex missini, gli ex alleanzini, oggi sparsi in mille rivoli, non hanno mai perdonato al loro presidente. La contestazione subita ai funerali di Rauti, per quanto volgare e incoerente possa essere stata, era stata un’avvisaglia del febbrone finiano. Arcore non era meglio di Montecarlo, ma via della scrofa non era di certo via dell’umiltà. Una classe dirigente ha buttato alle ortiche una fede antica, e sarebbe sbagliato esentare qualcuno del colonnellame e sottoufficialariato da colpe e reità. Si sa, però, che chi più in cima sta, quando cade, più si fa male. Coglione o corrotto poco importa, a meno che non si voglia scomodare Benedetto Croce che, giustamente, avrebbe preferito un disonesto capace ad un coglione incapace. Il cesaricidio è lecito, il patricidio no. Per patricidio intendiamo qui la doppia accezione di uccisione del padre e della patria. Se, come si legge nelle tesi di Fiuggi, “si esce dalla casa del padre sapendo di non farci più ritorno”, è vero invece che quella casa è stata distrutta, se non venduta. Se Fini è stato il monarca assoluto di An, e se il potere assoluto corrompe assolutamente, il risultato del sillogismo è presto dato.