– a cura di Filippo Del Monte – C’è aria di grandi manovre – e si spererebbe anche di grandi cambiamenti – in Fratelli d’Italia. Si parla di rinnovamento, di costruire una destra capace di parlare a tutte le categorie e classi sociali consegnando alla storia una volta per tutte l’esperienza di Alleanza Nazionale. La proposta fatta da Giovanni Donzelli per eliminare la fiamma tricolore dal simbolo di FdI ha generato emozioni contrastanti: a molti militanti e sostenitori di vecchia data questa dichiarazione del giovane dirigente toscano non è piaciuta affatto, mentre ha trovato sostegno tra i più giovani. Quella sul “valore” politico del simbolo di AN sembra dover assumere i contorni di uno scontro generazionale tra chi vorrebbe restare ancorato a vecchi feticci e chi ha intuito la necessità di cambiare (pur con tanta confusione argomentativa). L’obiettivo è quello di dare una svolta per dar vita alla destra nazionale del XXI Secolo, strappandola ad un destino da rediviva “vestale della nostalgia”.
Certamente chi ha un’esperienza a destra deve essere legato ai valori che quella fiamma rappresenta, ma nessuno intende negare quella storia se propone di voltare pagina. Quanti si ostinano a chiedere un ritorno al MSI – e non sono pochi nella magmatica base di FdI – sono l’emblema cristallino di un popolo che è stato incapace di storicizzare il suo passato, dal fascismo fino all’ultima esperienza aennina. Quello di portarsi sulle spalle più di ottant’anni di storia – mitizzandola anziché studiandola – è stato l’imperdonabile errore che le classi dirigenti della destra italiana hanno commesso da un punto di vista strettamente culturale ma che si è poi rivelato essenziale ai fini dello sviluppo politico pratico.
Marcello Veneziani in un’intervista rilasciata a Il Tempo ha detto che “bisogna avere ogni tanto il coraggio di tentare il nuovo quando il vecchio non funziona” e gli si deve dare ragione. Chi si accanisce nella battaglia “grafica” del simbolo dovrebbe capire che dietro c’è tutto un lavoro sui contenuti da fare, tanto sulla cultura politica di riferimento quanto sul troppo abusato programma. Tornare, se necessario, anche “all’antico se il vecchio è troppo vecchio”. Esistono importanti riferimenti da poter scoprire ed attualizzare che non necessariamente appartengono al patrimonio genetico del postfascismo, dalla destra risorgimentale ai nazionalisti di inizio ‘900, passando per i liberali nazionali. Esiste un intero filone di pensiero nazional-conservatore da recuperare e che potrebbe essere alla base di una ristrutturazione seria della destra italiana. Va ripetuto per i duri di comprendonio che questo non significa abbandonare i valori in cui si è sempre creduto, bensì ampliarne lo spettro e quindi il raggio d’azione del partito.
Fratelli d’Italia dovrebbe rivolgersi alle categorie produttive, a quella grande ricchezza rappresentata dalle piccole-medie imprese ma anche ai settori strategici dell’industria nazionale. Una destra moderna dovrebbe essere capace di recuperare alla sua causa e difendere un ceto medio che va impoverendosi; perché ciò che in questi anni di crisi è mancato all’Italia è stata una forza politica che si assumesse l’arduo compito di rappresentare la piccola-media borghesia, spina dorsale del Paese ed unica “classe nazionale” per rispolverare una vecchia definizione corradiniana. Altro fronte importante è quello della sicurezza, vero cavallo di battaglia per Fratelli d’Italia. Una politica seria sulla sicurezza sarebbe quella di finanziare gli apparati di sicurezza dello Stato e non quella di coltivare il mito del cittadino-pistolero quasi fossimo nel profondo Texas.
Un capitolo a parte merita la politica estera, trattata a “pesci in faccia” sia da Donzelli che da Massidda, capaci di ridurla a semplice scontro tra merkeliani e lepenisti o tra eurasiatisti ed atlantisti. La destra nazionale dovrebbe difendere gli interessi dell’Italia nel mondo, che siano politici, militari od economici e per fare questo occorre essere realisti e disfarsi dei paraocchi ideologici. La politica estera e gli scenari internazionali vanno studiati approfonditamente, vale molto di più conoscere l’azione diplomatica di Antonino di San Giuliano che saper ripetere come pappagalli le teorie di Dugin o il giudizio della Fallaci sull’Islam. Fratelli d’Italia dovrebbe dare risposte chiare – dopo attenta e ragionata analisi – sull’Europa e sulle crisi geopolitiche del Medio Oriente e del Mediterraneo, arrivando finalmente a capire che nel mondo globalizzato la futura sistemazione della Libia – per fare un esempio – conta molto di più della costruzione di uno spazio verde in una periferia disagiata.
Quello che emerge è che molto spesso in FdI a regnare è l’approssimazione. Come ha detto Veneziani, attorno a Giorgia Meloni “manca un mondo” fatto di intellettuali, giornali, professori ed esperti; perché per essere forza di governo non bastano i buoni propositi e le idee estemporanee. Prima si capirà questo e prima si comprenderà che questa fase di riflessione non può essere ridotta a battaglia sulla veste grafica del simbolo. Se la consapevolezza di dover cambiare fosse incanalata nella sterile direzione di uno scontro “fiamma si fiamma no” allora il dibattito aperto da Giovanni Donzelli si ridurrebbe a stupido passatempo per sfuggire dalla noia della canicola d’agosto. Il simbolo è esso stesso sintesi di idee e non semplice frutto del marketing elettorale. Dunque parliamo, scriviamo, proponiamo, facciamoci sentire, critichiamo, facciamoci criticare, ma facciamo qualcosa, altrimenti non resterà che accontentarsi di – nelle più rosee aspettative – uno striminzito 5% e di essere una invisibile parentesi tra la Forza Italia in grande spolvero di un logoro Berlusconi e la Lega Nord “sloganista” di Salvini.