– A cura di Nicola Tancredi – Se il 9 maggio i nostri figli continueranno a celebrarlo come festa dell’Europa, senza allusioni nostalgiche citando Battisti, lo scopriremo solo vivendo. Ormai di questa Europa è rimasto ben poco. Alla domanda cosa vuol dire oggi essere europei, non so cosa risponderebbero i pochi, ma i molti concorderebbero che di quell’illusione è rimasta una flebile bandiera che sventola solo per obblighi cerimoniali e una concezione di U.S.E sublimata a ragione di vita nelle menti dei filantropi dei gessetti. Ma andiamo con ordine. All’alba del 1950, l’Europa si svegliò sulle macerie del secondo conflitto mondiale con la consapevolezza di evitare in futuro il ripetersi di quella tragedia. Sulla base di questo contesto e in una prospettiva di pace e prosperità per il vecchio continente, si concepì l’idea di creare una comunità capace di mettere in comune gli interessi economici, e in prospettiva, quelli politici degli Stati europei. Ed è in questa direzione che il discorso tenuto a Parigi il 9 maggio del 1950, dall’allora Ministro degli Esteri francese Robert Schuman, passato alla storia come “dichiarazione di Schuman”, rappresenta l’inizio del lungo processo d’integrazione europea cominciato con la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e culminato in quella che oggi noi posteri chiamiamo Unione Europea. La CECA , tra i cui sei Paesi fondatori spicca anche l’Italia, fu in oltre occasione per convertire il secolare contrasto tra la Francia e la Germania in un più nobile concetto di solidarietà che avrebbe reso qualsiasi ipotesi di guerra tra i due Stati materialmente impossibile, come lo stesso Schuman dichiarò. Da quel giorno, dal quel discorso del 9 maggio 1950, abbiamo iniziato un percorso che ha portato alla creazione di organi sovranazionali e una serie di Trattati che sono si, alla base dell’odierna Europa, ma che sono visti da molti europei, più che come un comune sentire, come un collante forzosamente imposto. Partendo da Parigi quindi, abbiamo transitato sulla direttrice che ci ha portato ai Trattati di Maastricht e poi di Lisbona. Penso al’Eurozona e al Fiscal Compact per arrivare alla triste concezione che i Paesi membri sono stati relegati in una serie di organismi come la BCE, il SEBC e l’ FMI, a chiara struttura oligarchica e senza alcun fondamento democratico. Ed è in questo contesto che risuona come accorta e lungimirante, la prospettiva di Europa postMaastricht che Bettino Craxi diede nel lontano 1997,definendola per il nostro Paese, come un futuro limbo – nella migliore delle ipotesi- o come un’inferno. Oggi siamo certi dell’esattezza di quelle parole ma anche consapevoli che l’integrazione europea è avvenuta sulla base di un’idea che testimonia il suo stesso fallimento. Ha fallito l’Europa dei Trattati e dei parametri, troppe volte in netto contrasto con i principi basilari di sovranità.; ha fallito l’Europa della moneta unica capace solo di rendere l’Eurozona una terra florida per il pauperismo; un campo di battaglia politico e sociale. L’Europa ha fallito sotto i colpi del terrorismo, dell’islamizzazione e della finta -e forzosa integrazione. Abbiamo svenduto la nostra cultura ogni qualvolta si è coperto una “statua” in nome di un Dio accoglienza che ha fatto nascere nel grembo dell’Europa i suoi stessi carnefici, che nel marzo scorso non hanno colpito solo la città simbolo del potere europeo, dimostrandone la sua fragilità , ma anche la scellerata idea di fare dell’Europa stessa un’ammasso astratto di Stati, tenuto insieme solo da interessi economici e non da interessi comuni. Gli attentati di marzo hanno prodotto un effetto domino che ha portato al fallimento di Schengen quando, difronte all’incapacità di creare una politica unitaria nel caos immigrazione, molti Paesi hanno scelto di abbandonare lo spazio comune europeo, per riprendersi la propria integrità territoriale a garanzia della sicurezza interna. Orfana di un’ identità, l’Europa ha fallito ogni qualvolta che, in tutta segretezza e a cadenza alterna tra Washington e Bruxelles, una commissione di élite si riunisce per discutere e trattare sul TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), il trattato bilaterale che attraverso l’apertura doganale e la creazione di uno spazio di libero scambio, ha il celato scopo di fissare l’economia e la società europea agli interessi, alle regole e agli standard americani, subordinando definitivamente l’Europa alla volontà della “White House”. L’Europa degli interessi e del sovranazionale ha fallito in un sistema tecnocratico fine a se stesso fatto di indici, parametri e burocrazia che hanno evidenziato l’animo asettico di una politica autoreferenziale snaturata di un qualsiasi ideale e prospettiva; sempre più lontana dalla realtà ma sempre più vicina ai parametri globali del trionfo del profitto a discapito delle genti. Il peccato originale è stato di voler partire dall’economia per poi arrivare agli europei, si è pensato che una cittadinanza economica si sarebbe convertita in cittadinanza politica. Si scelse di creare un’Europa dall’alto invece che dal basso, dalle sue radici e dalla sua civiltà. Ed è questo quello che è mancato quel giorno di sessantasei anni fa, il sentimento comune di fare del vecchio continente l’Europa dei popoli e delle Nazioni sovrane. Oggi è svanito il sogno, vivo solo negli europeisti convinti, di unire ventotto Stati e 450 milioni di persone in un’unico blocco solo e grazie ai fili spinati di sterili Trattati incapaci di far convergere, le cessioni delle singole sovranità statali, in un unico comune denominatore atto a definire una politica e una strategia unitaria. L’Europa si è sublimata a struttura burocratica incomprensibile, intorno alla quale si respira un’aria di paura, impotenza e paralisi che raccontano l’incertezza tanto politica quanto identitaria. “C’erano due modi di fare l’Europa: uno era concepirla come integrazione delle patrie e degli Stati nazionali, l’altra era intenderla come dis-integrazione delle patrie. Si scelse la seconda via e questi sono i risultati. Quanto costa aver barattato l’identità con la globalità…” Quanta verità in queste parole di Marcello Veneziani.