– A cura di Filippo Del Monte – Una premessa è doverosa prima di affrontare l’intricata questione del federalismo a destra: chi scrive è un convinto sostenitore del modello di Stato centralista e dell’abolizione delle regioni nel nome di un rafforzamento dei comuni e delle province. Si potrebbe chiamare “Stato centrale dei campanili” questo modello che, al di là della denominazione che contiene in sé una sorta di ossimoro, sarebbe l’unico strumento per salvaguardare – sul lungo periodo – sia l’autorità assoluta ( o così dovrebbe essere) dello Stato centrale che le identità e culture locali che insieme formano la più grande identità italiana.
Detto questo però è anche giusto riconoscere come i risultati dei referendum in Veneto e Lombardia abbiano aperto la strada per un sereno dibattito sul federalismo a destra. Da una parte il blocco politico lombardo-veneto ha messo a nudo un sentimento diffuso dei cittadini che è quello dell’autonomia – quali possano essere le conseguenze “valoriali” interne alla Lega Nord salviniana è una domanda a cui si dovrà rispondere – e dall’altra ha provocato una sorta di cataclisma nella destra italiana. Si sà, il retaggio risorgimentale del centralismo su modello francese a destra è diventato più un totem ideologico che un “modello ideale” della propria visione dello Stato.
Concetto di Stato unitario mai in verità difeso a sufficienza negli ultimi anni se si pensa a come il centrodestra a trazione berlusconiana – e di questo si deve incolpare senza remore Alleanza Nazionale – abbia accettato senza colpo ferire la riforma del Titolo V ed abbia specificato che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” secondo l’Art. 114 della Costituzione; senza dimenticare poi il lavoro intenso – molto spesso sottotraccia – fatto in questi anni per far passare agli occhi dell’opinione pubblica il federalismo come il migliore dei sistemi possibili ed il centralismo come il frutto delle politiche sconsiderate di una sinistra con vesti giacobine e tiranniche. Dove sta scritto che sia veramente così non è dato saperlo ma tant’è, negli ultimi anni i “destri” nostrani si sono addormentati centralisti e si sono svegliati autonomisti e, nel peggiore dei casi, secessionisti.
Fonti di sprechi, emblemi della malapolitica, leve del potere per la politicanza locale, fabbriche di posti di lavoro “comprati” al prezzo dei voti per questo o quel candidato le regioni sono diventate – stando alla narrazione degli ultimi anni – d’un tratto le più virtuose delle istituzioni italiane; un “anti-Stato” per eccellenza se all’apparato centrale volessimo addossare tutte le colpe e tutti i mali di questo disastrato Paese. I toni della campagna referendaria lombardo-veneta che sono tracimati necessariamente nel vespaio politico nazionale hanno evidenziato come in Italia non si possa ancora parlare di federalismo con la dovuta serenità; s’alzano le barricate da entrambe le parti senza smussare gli angoli più appuntiti e senza abbandonare le rispettive “partigianerie”. Il centralismo è per la destra nazionale quel che il federalismo e l’autonomia sono per i “nordisti”: un feticcio e nulla più.
Quel che oggi sarebbe invece necessario è un confronto, il più ampio possibile sul tema, trovando una sintesi tra le – rispettabili – istanze del settentrione e la doverosa salvaguardia dell’autorità dello Stato centrale. Chi parla di Veneto e Lombardia “catalane” non ha la visione chiara della situazione e questo vale per entrambe le parti; ora più che mai ci vuole pragmatismo nelle scelte programmatiche per le prossime elezioni perché solo al centrodestra può spettare il compito di riformare lo Stato ove il centrosinistra renziano ha fallito. Non si possono che invitare partiti, associazioni e stampa del centrodestra italiano ad aprire un dibattito sul federalismo abbandonando la visione manichea del “federalismo positivo – centralismo negativo” una volta per tutte; è una questione di maturità politica per un ceto politico che vuole presentarsi come classe dirigente. Qualcuno dovrà pur togliersi i ridicoli elmi vichinghi dalla testa se vuole andare a governare uno Stato ed una Nazione che si estendono ben più a sud del Po.