A cura di Filippo Del Monte e Francesco Severa – La grande questione che, a sessant’anni dai Trattati di Roma, dobbiamo porci è se l’Unione europea rappresenti ancora oggi lo strumento più idoneo e più giusto che i popoli del vecchio Continente possono utilizzare per affrontare le sfide future che li attendono. Il processo di integrazione iniziato nel 1957 proprio con il Trattato di Roma oggi si è arenato per tutta una serie di motivi di tipo politico, economico e sociale che hanno condizionato negativamente la visione stessa dell’Europa unita. Lo scetticismo nei confronti di questa Europa è inevitabile. Eppure è sempre buona pratica per l’anima scoraggiare le scelte ispirate ad un troppo frettoloso manicheismo, che vorrebbe in questo caso farci aderire completamente all’idea della necessità di un bestiale leviatano europeo che annulli ogni legittima istanza nazionale (l’UE che decide anche la misura delle zucchine) oppure farci credere che, in un mondo di giganti, i nani europei possano da soli avere voce in capitolo sulle sorti del globo. Posizioni del genere tradiscono sempre l’assenza di riflessione e ragionamento.
Il punto da cui partire è invece uno: l’Europa esiste innanzitutto come sentimento, essa è prima di tutto “percezione” d’una identità condivisa. Se immaginassimo di percorrere a piedi la distanza che separa la collina di Wawel, santuario nazionale nella polacca Cracovia, dalla roccia di Finis Terrae, a picco sull’Atlantico, che segna, in Galizia, la fine del cammino di Santiago, saremmo sicuri che ogni popolo con cui verremmo in contatto, qualsiasi sia la sua lingua, condividerebbe con noi i medesimi valori profondi e la medesima visione del mondo. Come europei possediamo un patrimonio culturale comune, figlio di millenni di storia in cui abbiamo sentito profondamente di rappresentare una Civiltà ideale e solida, cristiana ed umana, dunque libera. Qui sta l’essenza stessa del “primato spirituale” del vecchio Continente. L’attuale Unione europea ha però considerato questo sentimento un ostacolo, un retaggio pericoloso d’una fase storica ormai conclusa; è a questo punto che il materialismo s’è impadronito dell’Europa, che l’ha privata della sua forza vitale e di quella comunanza d’intenti e di vite che, tutto sommato, i nostri popoli sempre avevano avuto. Si è creduto più efficace iniziare ad avviare forme di integrazione economica e sociale, ritenendo che la successiva integrazione politica e culturale ne sarebbe stata conseguenza automatica. Contrariamente alle previsioni questa Europa ridotta a “piazza del mercato” sta implodendo e di certo non per colpa dei cosiddetti “populisti”, ma perché tutto il processo d’integrazione è stato fatto contra populos, contro la Storia. Questa debole Unione è facilmente caduta vittima della Germania. L’euro è una moneta disegnata ad immagine e somiglianza dei rigidi banchieri teutonici; gli assurdi parametri che regolano produzione e vendita di merci nel territorio comunitario sono il frutto della famigerata efficienza germanica. Il “meccanicismo” con cui Berlino conduce la propria politica europea – ora sfrontata ora subdola – ha cancellato la fiducia che gli altri Paesi UE nutrivano nei confronti dell’integrazione. Paradossalmente allo strapotere tedesco nessuno si oppone; la “voce grossa” a Bruxelles è solo parte di una strategia funzionale ad anestetizzare le polemiche politiche interne ai singoli Stati – Renzi è stato un buon esempio di questo – e nessuna leadership alternativa a quella di Angela Merkel è emersa nel corso degli anni. Chiusi tra le sferzate paternalistiche degli Stati Uniti di Trump, che ci ricordano che le spese per la nostra difesa ce le assicura Washington, e il risveglio della Russia di Putin, gli Stati europei corrono il serio rischio di rimanere isolati, proprio nel momento in cui le spinte migratorie dal sud del mondo divengono sempre più incontrollabili. Insomma questa è un’Europa condannata all’irrilevanza e questo alle élites tecnocratiche di Bruxelles poco sembra importare.
Davanti a tutto questo, il grido unanime che i rappresentanti dei ventisette governi dell’Unione sembrano intonare è soltanto uno: “Europa a più velocità”. Immaginare di completare l’integrazione europea, soprattutto dal punto di vista dei delicatissimi temi della difesa, della sicurezza e dello stato sociale, con modelli eterogenei di coesione, decisi di volta in volta con i paesi intenzionati a svilupparli. Insomma il messaggio è <<andiamo avanti con chi ci sta>>. La cosa alquanto grottesca però sta nel fatto che nessuno si stia chiedendo dove andare. L’integrazione va velocizzata, anche a costo di lasciare indietro qualche paese più refrattario – potremmo anche concordare su questo -, ma il problema è che nessuno sembra interrogarsi su tempi e modi di questa integrazione, soprattutto perché pare che la strada intrapresa fino ad oggi si sia rivelata fallimentare. Dovremmo interrogarci su quale Europa siamo disposti ad accettare prima di decidere come arrivarci.
Qualora iniziassimo a ragionare su questo, il primo grande scoglio che ci troveremmo davanti sarebbe quello della disaffezione popolare. Gli europei vedono nelle istituzioni comunitarie un agglomerato burocratico che pretende di influenzare la loro vita senza uno straccio di responsabilità politica, cioè di responsabilità democratica. Non è più accettabile che ad una cessione di sovranità non corrisponda un aumento del controllo democratico dei cittadini sulle istituzioni dell’Unione. Nell’antica lingua greca si utilizzavano due parole differenti per indicare “il popolo”: la parola δῆμος (dèmos) e la parola λάος (làos). Il primo termine faceva riferimento al popolo nella sua accezione politica, cioè l’insieme dei cittadini; un insieme così indeterminato e diviso che quella stessa parola, con diverso accento, poteva prendere anche il significato di “feccia”. Il secondo termine al contrario faceva riferimento al popolo nella sua accezione territoriale e probabilmente culturale, cioè definiva non semplicemente un insieme di persone con determinati diritti politici, ma uomini che condividevano la comune appartenenza ad un luogo e ad una comunità. Ecco, non basta che l’integrazione si muova sempre dando ai cittadini strumenti solidi di rappresentanza democratica, ma ancor di più essa deve assicurare che le istituzioni europee, chiamate ad acquisire sovranità dagli stati membri, rispondano sempre ad una concezione “laocratica” della rappresentanza, intesa come consapevolezza di essere chiamati a garantire un’unità che è prima di tutto civile e sentimentale, culturale e spirituale. Forse solo così potremmo dare un senso a quella definizione – abusata e ormai vuota – di “Europa dei popoli”. Un modello di convivenza fondato su istituzioni forti e con compiti chiari, dunque che rispondano agli interessi degli Stati europei.
Altro fattore è la leadership di questo nuovo processo. Il rischio è che l’oggettiva supremazia tedesca finisca per influenzare anche questo “nuovo” processo di integrazione senza un valido contraltare, senza cioè un’assunzione di responsabilità politica da parte delle classi dirigenti dei Paesi dell’Europa mediterranea. Rappresenta allora una necessità soprattutto per i paesi del Sud Europa concordare una comune linea politica in grado di influenzare le politiche dell’Unione. Se la Francia non sembra più essere una valida alternativa con l’asse Berlino-Parigi funzionante e con la seconda in posizione subordinata alla prima, le speranze andrebbero riposte nell’Italia, se non fosse che il ritorno ad un modello proporzionale rischi di sviluppare una congenita debolezza del suo sistema politico. Roma con i suoi governicchi – già pronti ad aderire al “gruppo dei forti” nell’UE a più velocità pur nella consapevolezza di non averne risorse e mezzi – e senza un cambio di rotta difficilmente potrà influenzare la politica continentale. Insomma, a 60 anni dai Trattati di Roma l’Europa unita appare più divisa che mai.