DV1950795_MGTHUMB-INTERNA– di Francesco Severa – Siamo nell’elegante Torino, in un’aula di quello che tutte le statistiche confermano essere il Tribunale più efficiente d’Italia, in attesa di un verdetto. Costretto alla sbarra c’è Erri De Luca, rinviato a giudizio per istigazione a delinquere, a causa delle parole – “la TAV va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti” – che aveva usato in un’intervista all’Huffington Post del settembre 2013. Un processo, quello allo scrittore napoletano, che fin da subito prende i toni di una sfida politica. Quell’uomo, uno scrittore, un intellettuale, non viene processato per aver commesso qualche reato, ma semplicemente per aver espresso la sua opinione. Per aver difeso i tanti cittadini che in Val Susa si battono contro un’opera che non giudicano né necessaria, né utile, ma solo un’assurda imposizione.

Ecco allora che la difesa si trasforma in un’epica battaglia contro un sistema che vuole negare perfino l’elementare diritto alla libertà di pensiero. Tutto questo applicando un codice fascista che, punendo la sola istigazione al reato, finisce per censurare la nobiltà di parole come “sabotare”, usata perfino da Gandhi e Mandela. Il sostegno arriva senza indugio: intellettuali italiani e francesi – si scomoda perfino il presidente Hollande – firmano appelli per la libertà di espressione. Ma è poi vero tutto questo? Mai così tanto rumore per nulla, verrebbe da dire. Non è accettabile processare le idee, anche quando le riteniamo dannose e inopportune, questo deve essere chiaro. E’ il pensiero che ci rende uomini, la critica che ci rende liberi e quindi ci permette di “andare più in alto”. Perfino chi nega le terribili vicende della Shoah ha il diritto di farlo senza essere condannato in un’aula di tribunale, come vorrebbero i tanti che invocano il reato di negazionismo, mentre a noi sta, come dice Paolo Mieli, “trovare argomenti per dire che hanno torto”. Ma qui non si tratta di un processo a delle idee o a delle opinioni. Si tratta di capire se quelle parole, usate nel 2013, possano aver istigato qualcuno a commettere un reato. L’articolo 414 in particolare – quello che punisce l’istigazione a delinquere – punisce “un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero” (sent. 65/1970 della Corte Costituzionale), dunque non certo un articolo figlio di un’oscura ideologia totalitaria ma una disposizione in linea con la libertà di pensiero dell’art. 21 della Costituzione. Dire poi che il nostro codice penale è un codice fascista non è altro che la constatazione di una realtà oggettiva: esso porta la firma di Alfredo Rocco, insigne giurista, che varò il codice nel 1930 nel ruolo di ministro guardasigilli del governo Mussolini. Nel codice sono quindi certamente presenti influssi della cultura politica di quel tempo, ma il fatto che ancora oggi sia in vigore, sia pure con varie modifiche che vi sono state apportate, dimostra che ancora più influssi ha lasciato su di esso la grande cultura giuridica dei primi decenni del novecento.

Alla fine è stato il tribunale, decidendo che la nobile espressione “sabotare” non ha istigato nessuno a compiere un bel niente, a distruggere i sogni di gloria di chi aveva pensato che questo processo potesse essere lo strumento per veicolare un messaggio ben preciso; potesse cioè essere l’occasione per accendere i riflettori su chi contro la TAV ha sempre lottato, non sempre in maniera regolare e rispettando i principi di una società democratica. La puntura di spillo che ha rotto questa bolla che si era gonfiata intorno all’affaire De Luca è stata quell’asettica e fredda formula “assolto perché il fatto non sussiste”, figlia di quella cultura giuridica che guarda ai fatti e non alle opinioni. Sia chiara poi anche un’altra cosa: essere contro la TAV è un’opinione legittima, ma che noi possiamo altrettanto legittimamente giudicare antistorica e disastrosa.