A cura di Francesco Severa – E’ il 19 maggio 1966 quando Giovannino Guareschi pubblica su “Il Borghese” l’ennesima lettera indirizzata al suo Don Camillo, uno dei principali personaggi che popolano le sue opere letterarie. Una lettera (questo il link per leggerla – http://www.unavox.it/ArtDiversi/div052_GuareschiADon.htm ) che riesce, con lo stile pungente tipico dello scrittore emiliano, a riassumere i tanti dubbi che le innovazioni portate dal Concilio Vaticano II avevano sollevato in una non piccola parte dei fedeli cattolici. Oggi, senza nessun tentativo di imitazione o di paragone con l’uomo dei paradossi, per dirla con Marcello Veneziani, proviamo ad esprimere un’opinione sui tanti cambiamenti che la Chiesa sta oggi attraversando, scrivendo una lettera indirizzata, come Guareschi quarantanove anni fa, proprio al protagonista del “Mondo piccolo”.
12 novembre 2015
Caro Don Camillo,
non Le scrivo certo con l’intenzione di imitare – non potrei nemmeno pensarlo – quel G.G., che ci ha raccontato, con il genio della semplicità, la profonda umanità del “Mondo piccolo”, ma al contrario perchè sono sicuro che Lei potrà capire, meglio di tanti altri, il grande disagio di chi non sente sue le nuove sorti che si prospettano per la Cristianità. E pur sapendo che l’obbligo di un buon cristiano è “di intrattenere – diceva un uomo del Concilio come Henri de Lubach – una certa diffidenza di principio riguardo il proprio giudizio” quando si parla degli insegnamenti di Santa Romana Chiesa, è anche per lui doveroso contribuire attivamente alla scelta del cammino che il popolo di Dio vuole intraprendere.
Non so se un tipo riservato come Lei, reverendo, abbia gradito il riferimento che il Papa – sì proprio lui – ha fatto al Suo modo di vivere la vocazione sacerdotale, qualche giorno fa davanti ai vescovi italiani riuniti sotto la grandiosa cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. “Vicinanza alla gente e preghiera”, così L’ha descritta, innalzandoLa a modello per la Chiesa italiana. Eppure mi chiedo come verrebbe giudicato al giorno d’oggi un prete della Sua razza.
Oggi, nei tempi del progressismo militante, un prete non può certo ancora pensare che una religione sia migliore di un’altra. Alla fine il messaggio di Cristo non è poi così diverso da quello di un qualsiasi filosofo che parli di amore, fratellanza e ambientalismo. E Lei invece che si ostinava a tenere al centro dell’altare quel Cristo Crocifisso; una figura che oggi potrebbe urtare la sensibilità di qualche musulmano che voglia visitare la Sua parrocchia per studiare se il campanile sia adatto ad ospitare le grida di un talacimanno al posto del fastidioso suono delle campane.
Poi oggi la Croce alla fine è superata: Cristo va inchiodato a falce e martello. Perchè, parliamoci seriamente: il comunismo avrà pure ucciso qualche milione di cristiani e fatto dell’ateismo la sua fede, ma alla fine è così attento alla miseria dei popoli, tanto da tentare con ogni mezzo di moltiplicarla. Insomma mica Lei potrebbe continuare a definire i marxisti dei senza Dio.
Per essere buoni cristiani oggi poi conta essere sporchi, brutti, in miseria, sensibili ai problemi climatici e politicamente corretti; conta leggere tutte le domeniche le prediche di Barbapapà su La Repubblica. E Lei che si assicurava – che oscurantista! – che tutte le Sue pecorelle, perfino i tanti della banda di Peppone, venissero ad assistere alla fractio panis domenicale e che dal pulpito gridava, da vero sovversivo, che per essere cristiani si deve innanzitutto essere buoni e onesti; bisogna imitare Cristo.
No, caro Don Camillo! Lei oggi sarebbe un vecchio, barboso prete di un altro secolo e di un altro tempo. La Sua di Chiesa era indietro, indietro rispetto ad un Mondo che ha un altro passo; che si sente superiore perchè ha liberato l’Uomo da ogni limitazione, senza pensare che così facendo l’Uomo non è più se stesso. Cosa ce ne facciamo di dogmi stantii e riti obsoleti. L’Uomo oggi deve vivere libero da ogni verità; alla fine chi è per giudicare gli altri? E’ lui l’unico arbitro, avvocato e giudice, ma solo di se stesso.
E Santa Romana Chiesa pare abbia deciso di abbandonarsi alla dittatura del dialogo. Ha deciso di assolvere il mondo senza che esso si sia pentito. Secoli passati ad insegnare che l’Uomo non è un essere bestiale, ma è fatto per Dio; a conservare una Fede che rimette l’uomo nel verso giusto. Conservare, appunto. Questa bellissima parola che contiene il senso di quell’ineffabile mistero che è la memoria; una memoria fatta di liturgie che ci danno la certezza che Dio sempre risponde al nostro grido. “Fate questo in memoria di me”. Ecco tutto questo bisogna nasconderlo, o almeno va messo in secondo piano, perchè il Mondo non ne sia infastidito.
La Misericordia poi, che la Chiesa pratica da millenni ma che è divenuta una grande ed inedita scoperta. Ma come può esistere la misericordia senza la Giustizia: come si può essere perdonati se non esiste almeno il pericolo della condanna. Il Cristianesimo è sempre vissuto su questa tensione: la salvezza è frutto di una scelta, di un pentimento, dell’esperienza di un evento che cambia l’Uomo fin nel profondo. Il Cristianesimo ci racconta non che l’Uomo è dannato, ma che è dannabile. E allora è necessario che il suo ravvedimento sia attivo. Ma come può ravvedersi se la Chiesa è la prima a desistere dall’insegnamento della verità? se la Fede non diventa altro che una scatola chiusa da riempire a nostro piacimento? Come si può dialogare se ci si dimentica chi siamo? Se ci si dimentica che Cristo non è un rivoluzionario qualsiasi, non è uno venuto a denunciare le ingiustizie della società, ma è al contrario via, verità e vita?
Esiste il concreto rischio che pensare troppo al lavoro, agli stipendi, alle pensioni, quasi la Chiesa fosse un grosso sindacato, ci faccia dimenticare che è la provvidenza e non la previdenza, che ci salva. C’è il rischio che viga l’incertezza, quando la Madre Chiesa è sempre stata una guida perchè guardiana di insegnamenti immutabili. Insegnamenti la cui verità poteva essere in ogni momento dimostrata, verificata, anche dall’ultimo degli ultimi.
E proprio gli ultimi, i poveri, non possono che giovarsi di questa immutabilità perchè, come disse Chesterton, “se desideriamo proteggere i poveri dovremmo essere a favore di regole fisse e dogmi chiari. Le regole di un club di tanto in tanto sono a favore dei membri più poveri. La tendenza di un club è sempre a favore di quelli ricchi”.
E allora dove si finisce se alla manzoniana Chiesa che soffre, combatte e prega si sostituisce la Chiesa della desistenza?
Insomma reverendo, forse dovremmo rassegnarci ad essere definiti farisei ottusi, complottisti, o nel migliore dei casi nostalgici di riti ormai inutili, e lo faremo, perchè, come Lei, viviamo nel sacro timore d’una divisione tra i cattolici, che sarebbe veramente uno scandalo davanti a Dio. Non ci rassegniamo però all’idea che la nostra civiltà sia in rovina; che la nostra Fede oggi non sia più il fuoco che anima la società, ma un fenomeno da baraccone che deve essere trasformato in una strana e assai peculiare filosofia malinconica per avere ancora cittadinanza nell’età post-moderna.
Forse allora è pensando alla Sua Brescello, a quel piccolo mondo in cui perfino il sindaco comunista aveva bisogno alla fine di scontrarsi con Dio, a quella gente che sapeva che, nonostante le difficoltà della vita, c’era qualcosa di stabile e certo nell’universo, che si può ben comprendere come la dottrina, con i suoi dogmi e i suoi insegnamenti, non è una pesante catena che rischia di soffocarci, ma una boccata di libertà a pieni polmoni, che, suggerendoci il significato della vita, ci dona la chiave per un’inestimabile e inestinguibile gioia.
Francesco Severa