-di Francesco Severa- Fabiano Antoniani a 39 anni ha deciso di togliersi la vita mordendo un pulsante che ha attivato l’immissione nel suo corpo di un farmaco letale. Voleva uscire da quella “lunga notte senza fine” – così l’aveva definita – in cui era precipitato a causa di un incidente. Lo ha fatto lontano da casa, in una clinica della civilissima Svizzera. Davanti avvenimenti così crudi e toccanti, avvenimenti che così profondamente interrogano la coscienza di ognuno di noi, dovremmo avere l’assennata prudenza di abbandonare inutili serialità e un certo manicheismo da tifoseria calcistica. Togliersi la vita è sempre un gesto di profonda disperazione, che merita silenzio, riflessione, preghiera. È imbarazzante constatare con quanta disinvoltura alcuni si affrettino, non tanto lecitamente a dire quanto una scelta come questa possa di per se stessa essere sbagliata, quanto stupidamente a condannare una persona che non certo alla leggera ha ritenuto quella scelta l’ultima possibile soluzione per mettere fine al suo smarrimento. La Verità che il cristianesimo ci offre è chiara. La vita è un dono di Dio e come tale è assolutamente indisponibile. Ancora di più. Per chi ha la certezza che il male è stato per sempre sconfitto nella Croce, il dolore e la sofferenza acquistano un senso quale testimonianza per gli altri del nostro destino di salvezza. Ma la fede è prima ancora che una scelta, un dono. E come nessuno può essere obbligato ad essere un santo, così nessuno può essere giudicato perché non lo è. Allo stesso modo c’è qualcosa di meschino, vigliacco, osceno nell’utilizzare il dramma di una persona per promuovere infime battaglie politiche. Per quanto si voglia anche credere che ci sia qualcosa di nobile nel suggerire e assecondare la morte di un uomo, credere che una scelta così intima possa essere imbrigliata in una fredda disposizione legislativa ha qualcosa di demoniaco. Vi è poi da considerare che ove anche il nostro Parlamento avesse approvato il disegno di legge sul fine vita attualmente al suo esame, esso non si sarebbe applicato in questo caso specifico. A chi scrive su facebook con esultanza #fabolibero, non possiamo che rispondere tristemente che al contrario Fabo è morto.
A Fabiano dobbiamo rispetto. A noi non compete giudicare la sua scelta, né esultare per essa. Abbiamo però il dovere civile di chiederci come affrontare questi temi. Interrogarci se una legge sul fine vita sia oggi in Italia necessaria ovvero utile, giusta ovvero iniqua. La mia posizione è la seguente. Razionalmente dovremmo domandarci prima di tutto quale motivo spinge una persona a decidere di mettere fine alla propria esistenza. Sentirsi vincere dalla disperazione perché non si riesce a dare un senso alla propria vita. Dolore e sofferenza, sfiducia e smarrimento sono una prova ardua per un uomo. Sapere poi di essere un peso per i propri familiari, i propri amici e la propria società certamente rende tutto ancora più difficile. Dj Fabo diceva di sentirsi in gabbia, cieco e immobile come era. Ma una nazione, uno Stato, una comunità umana quale risposte è chiamata a dare di fronte a quello che potremmo sintetizzare come un senso globale di abbandono? Qui si vorrebbe per legge stabilire che ad un uomo senza speranza la società non debba offrire conforto, ma morte. Ad una persona disperata e sofferente che decide, non certo con gioia, di voler porre fine alla sua vita lo Stato dovrebbe rispondere <<suicidati>>, o peggio <<ti suicido io>>. Ancora di più poi, si vorrebbe far passare queste illogiche asserzioni come l’espressione della più progredita forma di civiltà. Forse quella che segue sarà una presa di posizione arretrata e reazionaria, ma non è la nostra stessa profonda natura di uomini a suggerirci che davanti alle difficoltà di una persona non possiamo non tendergli una mano amica? Io immagino che un’entità statale abbia un debito di solidarietà verso ogni suo cittadino sofferente. Abbia un debito di sostegno, soprattutto economico, verso le famiglie che di quei cittadini si fanno carico. Abbia un debito di vicinanza verso chi dalla società si sente scartato. È chiaro però che per uno Stato, per il suo bilancio, per la sostenibilità del suo Sistema Sanitario Nazionale, sia molto meglio somministrare ad un malato tredici euro di barbiturici, piuttosto che sostenere per anni cure da migliaia e migliaia di euro. Possiamo barattare anche solo una vita per i soldi? Certo, si potrebbe replicare, qui non parliamo di persone incapaci di esprimere la propria volontà, ma di persone che liberamente decidono di morire. Persone che scelgono in quella morte di autodeterminarsi. È però quantomeno improprio parlare di libera determinazione per un soggetto schiacciato dalla sensazione di essere un inutile peso per quanti lo circondano; avvilito da una sofferenza che sente insensata e fuori luogo in una società che lo ignora. Abbandonandoci a questa cultura dello scarto, in cui giriamo le spalle a chi ha bisogno di amore, saremo noi a spingere queste persone verso la morte. Nel momento in cui rendiamo legale la morte come soluzione possibile, stiamo legittimando la nostra indifferenza verso la parte più debole della nostra comunità. Il pericolo poi è proprio culturale. Aprire un varco legislativo sul primato della vita significa poi vedere pian piano abbassarsi sempre più l’asticella della dimensione dell’accettabile. Succede in Belgio con la legge sull’eutanasia, la quale permette di ricorrere alla cosiddetta “buona morte” – un nome grottesco – chiunque viva una “sofferenza insopportabile”. Si è arrivati così nel 2013 ad uccidere due gemelli quarantacinquenni che a causa di un glaucoma avrebbero avuto la seria possibilità di diventare ciechi. Non lo erano, ma potevano diventarlo. Ancora più agghiacciante il caso della madre di Marcel Ceuleneur, uccisa senza essere nemmeno malata, perché plagiata dal suo medico. Se incominciamo a credere che la malattia è incompatibile con la vita, a pensare che è accettabile e forse necessario che chi soffre “sia suicidato”, in non poco tempo arriveremo a concepire come ordinario che il nostro vecchio nonno malato, invece che essere accudito, vada soppresso. Un mondo così non fa per me. Un mondo così non sarebbe umano.