Per fare un esempio, siamo nel luglio di quest’anno quando un sequestro di beni per un valore complessivo di ben un milione e mezzo di euro è stato eseguito a carico dei familiari di Totò Riina sulla base della evidente sproporzione tra i redditi dichiarati da moglie e figli e le ingenti quantità di denaro di cui gli stessi potevano disporre – 42.000 euro di assegni emessi a favore dei congiunti detenuti nel giro di sei anni; su tale sproporzione si è fondato il sospetto che quei soldi potessero provenire da attività illecite e su quella base si è disposta la misura di prevenzione.
Facile è intuire i motivi per cui uno strumento del genere presenti dei profili critici, soprattutto per il fatto che applica sanzioni non poco pervasive a soggetti semplicemente indiziati di un reato e non condannati, sulla base di un sospetto dell’autorità giudiziaria. Ragionevole era pensare dunque che, visto il rischio assai concreto di cadere nell’arbitrio – di questi strumenti si serviva il regime fascista per la repressione del dissenso politico – bisognasse limitare questa tipologia di istituti solo a reati dalla grande pericolosità sociale, quali mafia e terrorismo, come era fino a qualche giorno fa. Abbandonatasi all’ubriacatura da fine legislatura, la politica di questo Paese ha deciso di piegarsi inerme al “modello Mafia Capitale”.
Quel teorema barbaro, bocciato nelle aule di tribunale ma risuscitato miracolosamente a Montecitorio, che vorrebbe addirittura sancire per legge l’assai pericolosa equiparazione tra mafia e corruzione. Pericolosa, seppur ad una prima riflessione quasi accettabile, perché concepita non su un’analisi reale delle cause dei fenomeni di corruttela nel nostro Paese, analisi che imporrebbe di affiancare a misure di tipo repressivo un’attenta revisione della eccessiva pervasività della Pubblica Amministrazione nel sistema economico italiano, ma concepita come strumento per giustificare il sospetto sistematico, l’infangamento a mezzo stampa, la profonda forzatura delle più basilari garanzie costituzionali, a volte persino a prescindere dalle reali finalità processuali.
Non si possono offrire alibi alla barbarie, come sembra che con tanta leggerezza il nostro Parlamento abbia fatto. Fa paura un Paese che si abbandona a queste logiche. Un Paese che si inchina irragionevolmente a chi, portando sul petto la sua medaglietta di latta con scritto “antimafia”, sembra bearsi di un mondo in cui tutti i buoni possono diventare cattivi, se hanno un dito puntato contro. Questa parola, “antimafia”, sembra essere oramai diventata un magico espediente dietro il quale nascondere i più sinistri istinti giacobini di certa politica italiana. Al posto dei martiri con la toga, di Falcone e Borsellino, di quanti hanno dato il sangue perché pensavano che la Giustizia, come civiltà dell’Uomo, fosse un orizzonte a cui dover aspirare, ci troviamo oggi invece quelli della legalità spocchiosa, le Rosy Bindi, quanti sembrano riuscire a riempire la nullità assoluta delle loro menti solo cercando la pagliuzza negli occhi degli altri.