Nel tentativo di smarcarsi rispetto narrazioni inconcludenti del proprio agire politico, alcune formazioni partitiche della galassia di centrodestra vorrebbero “congelare” il proprio simbolo. Carlo Prosperi ne ha parlato con Gabriele Maestri, analista elettorale e accademico presso l’Università di RomaTre impegnato nello studio dei Partiti e dei sistemi elettorali.
Oswald Spengler scriveva che la politica è simbolo, è la capacità di raccogliere un’identità complessa in un unico processo cognitivo. Da cosa nasce la tua passione per la simbologia politica?
Per quanto malsano sembri, nasce dalla mia curiosità di bimbo. Fin da piccolo ero rimasto attratto dai “disegnini” nei cerchietti, che sui manifesti e in tv erano a colori. Sulle schede lo sarebbero diventati nel 1992. Il tempo è passato, ma l’interesse è cresciuto nel cercare di capire cosa ci fosse dietro a certi simboli e disegni. Volendo, è un continuo “gioco dei perché” fatto da una persona che cresce: perché quel simbolo è stato fatto così? Perché è stato scelto? Perché è stato cambiato? Perché il Ministero quella volta lo ha bocciato?
Domande come queste nel 2010 mi hanno fatto iniziare una vera esplorazione – molto interessante e potenzialmente infinita – dell’universo simbolico. Parlando dell’Italia, almeno in tutta la Prima Repubblica e per buona parte della Seconda, uno scudo crociato, una falce con martello e una fiammella, oppure un rametto d’ulivo e una bandierina tricolore riuscivano davvero a contenere in sé un mondo, un’identità fatta di valori, speranze, storie, riti e miti, per questo la gente si identificava. Avesse visto gli emblemi di oggi, più colorati ma più anonimi e spesso senza veri simboli, inteso come soggetti grafici, dentro, Spengler sarebbe rimasto perplesso: avrebbe forse detto che c’era ben poca identità in quei segni. E, in effetti, ci avrebbe azzeccato.
Il trend in Europa, ma non solo, è la personalizzazione dei partiti a cui sommiamo una “gassificazione” nelle strutture e negli strumenti di selezione della classe dirigente. E’ finita la stagione delle primarie ed è iniziata quella dei “cerchi magici”?
Qualche forma di “cerchio magico”, in realtà, in Italia è stata attiva ben prima che il noto “affaire Lega-Bossi” suggerisse quel nome e per qualcuno magari è facile pensare alla «corte di nani e ballerine» dipinta dai detrattori di Craxi. Detto ciò, primarie e “cerchio magico” credo rappresentino forme e canali diversi di personalizzazione dei partiti e della politica, di certo con una concentrazione maggiore nelle esperienze del “cerchio”.
Da noi la stagione delle primarie, a parte i suoi precedenti isolati, dura da un decennio, ma più volte lo strumento ha mostrato i suoi difetti e i rischi che porta con sé; a Milano la macchina delle primarie del centrosinistra è partita, altrove l’istituto non gode di buona considerazione. A qualcuno non è mai piaciuto, per altri la disaffezione è più recente, per le scottature prese o per altri motivi. In generale, forse la stagione delle primarie non è finita, ma in partiti lontani dallo stato solido dell’altro ieri e da quello liquido di ieri avrà sempre meno spazio.
Sistemi elettorali. L’Italicum, così come lo conosciamo adesso, è il “migliore dei mondi possibili”?
Non c’è un sistema elettorale “migliore” in assoluto; ogni sistema, in un dato contesto, produce effetti più o meno conformi a desideri e aspettative di ognuno; c’è chi punta sulla governabilità, c’è chi predilige la rappresentanza. Da anni auspico il ritorno al Mattarellum, con la competizione basata soprattutto sul confronto tra candidati in collegi uninominali corretta da una quota proporzionale per la rappresentanza dei partiti. Cosa che forzerebbe partiti a selezionare persone migliori e legate al territorio, magari con le primarie.
Quanto alla domanda, preferisco chiedermi “per chi” l’Italicum può essere il migliore dei mondi possibili. Per il Pd di Renzi lo era mesi fa e può esserlo ancora, ma se restasse poco al di sopra del 30% potrebbe avere la tentazione di ritoccare la legge, consentendo le coalizioni e assegnando il premio di maggioranza alla più votata: modifica chiesta da mesi da partiti come Ncd e Udc, per poter continuare a incidere. L’alternativa sarebbe il “diritto di tribuna” in altre liste, evitando lo sbarramento ma con evidenti rinunce. Il sistema elettorale attuale non piace al centrodestra, specie a Forza Italia, che ha sempre raccolto molto dalla moltiplicazione delle sigle coalizzate e oggi pare lontano dal ballottaggio, essendo difficile immaginare un simbolo unico per Fi, Lega e Fratelli d’Italia che “sbanchi” ai seggi. Ora, per assurdo, l’Italicum giova soprattutto al Movimento 5 Stelle, quasi certo di arrivare secondo e potendo giocarsi la vittoria al ballottaggio, magari con la complicità degli elettori di sinistra -che potrebbero non tornare al voto- e un piccolo aiuto da quelli di centrodestra forse disposti a votare M5S per far perdere Renzi.
Le coalizioni hanno mostrato di potersi sciogliere a Parlamento insediato, di fatto falsando il risultato dell’assegnazione del premio di maggioranza; le federazioni di partiti, in cui di solito un soggetto politico prevale, forse sono un po’ più stabili, ma non sono immuni dal rischio di perdere pezzi. Di certo il M5S, già da ora, appare come l’unico concorrente non “federato”: in caso di sua vittoria, il rischio di spaccature sarebbe molto più ridotto.
Amministrative. Molti Partiti nella galassia di centrodestra pianificano di evitare la presentazione dei propri simboli nelle città al voto. Al di là delle geometrie territoriali, consideri questa una manovra utile o inutile?
La storia non è di oggi e non è tipica solo del centrodestra. Nei comuni sotto i 15mila abitanti non sono previste coalizioni e rinunciare ai simboli spesso è una scelta obbligata: piuttosto che piazzare nel contrassegno della loro unica lista due o più emblemi di partito, con soluzioni grafiche sgradevoli, i candidati sindaci preferiscono un segno civico, capace di ottenere consenso anche tra chi potrebbe scoraggiarsi vedendo simboli di parte. Il problema non se lo ponevano i partiti più piccoli di destra, che cercavano di presentare liste coi loro emblemi nei comuni minori – sotto i mille abitanti non servono firme – per avere eletti e cercare di radicarsi: a volte è ancora così.
Nelle città più grandi, invece, sarebbe oggettivamente una novità la sparizione dei simboli di centrodestra, soprattutto quello di Forza Italia. La Lega Nord difficilmente rinuncerebbe. Può essere utile bloccare il simbolo se si pensa che usarlo, più che dare vantaggi, sia dannoso, magari facendo perdere voti ai candidati o, al contrario, certifichi con i dati delle urne un fallimento da cui sarebbe difficile rialzarsi; in quel caso, però, la batosta elettorale potrebbe essere solo rimandata, se non si riuscisse in seguito a restituire credibilità non tanto al simbolo, ma al partito che se ne fregia. La manovra, dunque, può essere utile, ma nel breve periodo. Certo è che quello Forza Italia è stato probabilmente il simbolo più efficace dell’ultimo quarto di secolo: saperlo “in difficoltà” fa un certo effetto…
I simboli sono legati a delle storie, delle narrazioni. Quale hai apprezzato maggiormente? Nel mio libro Per un pugno di simboli e nel mio sito www.isimbolidelladiscordia.it, oltre che alle vicende, alle scazzottate politiche e agli sgambetti tra un litigante e l’altro, cerco di dare spazio anche a come un simbolo nasce e a come lo si vuole far parlare: in questo è stato molto interessante parlare con chi ha concepito certe grafiche.
Ettore Vitale, per dire, mi ha spiegato come si è arrivati alla scelta del garofano per il Psi, e quanto sia stato difficile, nei primi anni, mettere da parte falce, martello e libro, avvertiti come un peso da Craxi, ma ancora importanti per la base; Francesco Cardinali mi ha descritto passo a passo, con preziose grafiche alla mano, la nascita dell’asinello dei Democratici di Prodi. Willer Bordon, nella sua ultima uscita pubblica alla presentazione del mio libro, ha raccontato gli sforzi fatti da Arturo Parisi per convincere il Professore dell’opportunità di quella scelta. Dicevo dell’efficacia, ora appannata, del simbolo di Forza Italia: è stato stimolante il racconto del suo creatore, Cesare Priori, che ha ripercorso per me il cammino verso la nascita del marchio che doveva comunicare con immediatezza l’invito a muoversi e a darsi da fare, nel rispetto della filosofia comunicativa berlusconiana per cui «se un messaggio impiega più di tre secondi per essere capito, non è chiaro oppure può essere sbagliato». E con tanto di “piano B” ironico, partorito nell’estate del 1993 pensando ai Mondiali di calcio dell’anno dopo: «Male che vada, le bandiere che abbiamo fatto ce le possiamo vendere allo stadio…».