Anche se l’operazione di sgombero è stata compiuta abbastanza rapidamente e della “giungla” restano solo le fiamme appiccate dagli immigrati rivoltosi, lo strascico politico e sociale sarà lungo. La Francia non è nuova a rivolte “etniche” di minoranze ben organizzate; gli scontri violenti nelle banlieues sono l’esempio più eclatante di una situazione fuori controllo che ha messo in dubbio l’efficacia dell’assimilazione culturale. La comparsa di vere e proprie “zone franche” nelle città dove lo Stato non riesce ad esercitare la propria autorità è stata la pericolosa conseguenza del metodo di gestione dell’emergenza migratoria non solo in Francia, ma in altre aree d’Europa. Per come era stata concepita e poi gestita “la giungla” di Calais la naturale conclusione non poteva che essere quella di una zona franca dove criminalità e miseria si autoalimentavano senza che le forze dello Stato potessero intervenire.
Il rischio che nello “scontro etnico” – le virgolette sono d’obbligo – si inserisca anche una forte componente ostile verso le scelte di un apparato statale distante e distaccato è palpabile. In casi del genere non si può ricondurre tutto all’ignoranza del cittadino medio – come il prefetto di Ferrara ha vergognosamente tentato di fare – ma bisogna comprendere che la gran parte delle colpe sono di uno Stato che è stato incapace di progettare un vero programma di integrazione e che alle prefetture è stato impedito di fungere da “cinghia di trasmissione” tra le decisioni del governo centrale e le richieste degli amministratori locali. Per “cinghia di trasmissione” non si intende la meccanica e pedissequa esecuzione degli ordini impartiti dall’alto, ma la capacità di farsi comprendere dalle comunità locali e contemporaneamente comprenderle. Non si può pretendere di imporre la presenza di immigrati e poi stupirsi di eventuali proteste da parte dei cittadini; e che queste proteste siano politicamente manovrate o meno poco importa.
Dove gli immigrati vengono impiegati in lavori socialmente utili riuscendo ad integrarsi non accadono episodi del genere; dove invece si decide di “riconvertire” paesini e città ad “alberghi” per immigrati allora ecco comparire i primi segni di insofferenza che poi possono sempre degenerare in episodi più o meno sediziosi. Quello che all’Europa manca è una vera e propria “cultura dell’integrazione” da contrapporre alla “cultura dell’accoglienza” che produce effetti devastanti sul tessuto sociale perché erge barriere dove non andrebbero costruite. L’accoglienza coatta – obbligatoria anche quando non si hanno le risorse necessarie – che tanto piace alla sinistra ed alle “anime belle” italiane ci porta più vicini allo scontro etnico ed identitario di quanto si immagini. L’integrazione rappresenta invece la volontà e la capacità di comprendere l’altro senza smarrire le proprie radici e senza vedere “stuprata” la propria identità. Perché il vero problema è a monte: non sono tanto gli immigrati ad attaccare l’identità dei popoli europei, quanto le attuali classi dirigenti del Vecchio Continente, indottrinate – con qualche fortunata eccezione – alla cultura dell’accoglienza a tutti i costi.