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ALEMANNO, CANTONE E LA MAFIA CHE NON C’E’

mafia– a cura di Francesco Severa- Se vogliamo essere sinceri a molti qualche dubbio era venuto. Qualcuno aveva perfino sommessamente provato a dirlo – anche questo giornale in realtà. Eppure quella indicibile parola ha sul raziocinio degli abitanti di questa nostra amata nazione un effetto anestetizzante. Mafia. Un termine a ragione divenuto marchio infamante, ma che, se slegato dalla sua più propria funzione descrittiva di uno specifico fenomeno sociale, si trasforma in strumento estorsore di un obbligato sentimento di condanna. E’ un’etichetta che fa vendere più copie ai giornali, da più spazio sui media, addirittura mobilita l’opinione pubblica. E’ percepita come un male non ordinario e che dunque in qualche modo giustifica anche reazioni non ordinarie. E su Roma il pacchetto era veramente completo. Un boss guercio, un picchiatore, affari con le pompe di benzina, classe politica compiacente decimata da provvedimenti cautelari. Senza dimenticare poi arresti a dir poco cinematografici e funerali kitsch. Dopo quasi due anni dall’inizio dell’inchiesta però, questa grande costruzione, che voleva Roma governata da una cupola mafiosa, sembra vacillare alla prova dei fatti. Partiamo da Gianni Alemanno. E’ il 16 settembre e nell’aula bunker del carcere di Rebibbia si tiene il processo per corruzione a Marco Milanese. Alemanno è uno dei testimoni. Mentre si discute in quale veste l’ex sindaco della capitale avrebbe dovuto assumere l’ufficio di teste, il procuratore aggiunto Paolo Ielo comunica che, mentre Alemanno rimane imputato per corruzione e finanziamento illecito, per l’associazione a delinquere di stampo mafioso (articolo 416 bis codice penale) la procura ha formulato richiesta di archiviazione. E’ oggi obbligo di ogni libera coscienza, forse, ancora di più, dovere civile, restituire l’onore ad una persona che ha vissuto due anni con un “macigno” ingiusto sulla testa – così lo stesso Alemanno lo ha definito. Ma c’è qualcosa di sorprendente e inquietante allo stesso tempo nella dichiarazione pur asettica e procedimentale di Ielo. La procura decidendo per l’archiviazione ha sostanzialmente ammesso, a rigor di logica codicistica, che non ritiene che nel caso specifico sussistano elementi idonei a sostenere l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso in giudizio. Ma andiamo avanti. Era il 14 settembre e al processo a carico di Salvatore Buzzi è l’ora della testimonianza di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Nazionale Anti-Corruzione, citato dalla difesa. Cantone, infatti, ha avviato con la sua struttura un controllo non superficiale sugli appalti del comune di Roma nel periodo 2012/2014; quello che interessa le indagini. L’ANAC ha il compito precipuo nella sua attività di controllo di segnalare all’autorità giudiziaria fatti o elementi che ritenga possano anche solo far sospettare l’esistenza di un illecito penale. Ora, nelle due ore di testimonianza Cantone ha descritto bene i contorni e i limiti dei poteri della struttura che gestisce, sottolineando come ad essa non spetti di definire la qualificazione giuridica dei reati, ma semplicemente quella di segnalare anche un semplice sospetto su un possibile illecito, di cui magari non si specificherà il nomen iuris pur avendo un’idea astratta del tipo di reato. Arriva allora la fatidica domanda di Alessandro Diddi, il difensore di Salvatore Buzzi: “Ma fra le ipotesi di reato vi è mai capitato di segnalarne qualcuna relativa al 416 bis, all’associazione mafiosa?”. La risposta di Cantone, pur essendo stata quasi ignorata dalla stampa, ha la forza dirompente di un lanciafiamme: “Posso dire di avere trovato ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione oppure reati economici, ma posso escludere di aver mai individuato, fino ad oggi in quelle carte, una sola qualificazione di 416 bis.” Mai nulla dunque tra le mille scartoffie del Campidoglio ha mai potuto far sospettare ad un magistrato che ha combattuto in trincea i casalesi la presenza di un’organizzazione mafiosa che gestisse appalti e prebende nella capitale. Non è finita però. E’ il 13 giugno scorso quando la seconda sezione penale della Corte d’Appello di Roma ribalta la sentenza di primo grado sul clan Fasciani di Ostia. Le condanne inflitte in primo grado vengono tutte ridotte in quanto la Corte ritiene che la qualificazione esatta per i reati ascritti agli imputati sia la semplice associazione per delinquere e non quella di stampo mafioso. Oggi abbiamo anche le centocinquanta pagine di motivazione di quella sentenza, che sono inequivocabili. Per provare la qualificazione del 416 bis è necessario dimostrare che l’associazione per delinquere in oggetto si avvalga “della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti”. Secondo la Corte però “il materiale probatorio raccolto – scrive nella sentenza – depone per singoli atti intimidatori, posti in essere nei confronti di singoli soggetti, mentre difetta la prova pervasiva del potere coercitivo del gruppo Fasciani”. Ancora: “l’atteggiamento tenuto dai testi escussi nel corso del dibattimento non può essere ricondotto in modo univoco a strategie intimidatorie, o comunque, ad uno stato di diffusa soggezione”. Ci troviamo dunque nella paradossale situazione del commissariamento per infiltrazioni mafiose di un Municipio, il decimo, quello di Ostia, in cui in realtà la mafia sembra che non ci sia. Ecco che allora non sarà forse buona pratica giuridica dar maggior valore alle massime dei giallisti piuttosto che alle norme del codice, ma come dar torto ad Agatha Christie quando afferma che “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova.” Ancor di più se questi indizi sono gravi, precisi e concordanti. Veramente siamo davanti ad un’organizzazione criminale con tutti i connotati della “mafiosità” o siamo semplicemente al cospetto di una serie cospicua di episodi di corruttela, criminali sì ma non certo espressione di un unico disegno delittuoso? E’ forse eversivo chiedersi se tutta la costruzione di “Mafia Capitale” si sia basata su una reale ed onesta lettura e qualificazione dei fatti o se sia stata al contrario guidata da un mero giudizio di sostenibilità mediatica? Veramente c’è qualcuno a piazzale Clodio che ascoltando le farneticazioni tolkieniane di Carminati e Buzzi ha pensato che dietro vi si potessero celare fenomeni mafiosi o forse è stato tutto un improprio tentativo di legittimazione dell’azione penale? I dubbi restano. Come non può che restare il sistematico sputtanamento che delle persone, una classe politica, un’intera città hanno dovuto subire sotto i colpi di quanti credono che le aule di tribunale siano il luogo per una catarsi sociale e collettiva; di quanti credono che la legge possa essere un’arma contro qualcuno e non limite e garanzia per tutti; di quanti fanno dell’anti-mafia una medaglia di morale superiorità da mostrare impettiti negli studi televisivi. Ci siamo addormentati spinti a sognare di mostruose consorterie di incalliti mafiosi, ma rischiamo di svegliarci e vedere solo una banda di delinquenti e criminali.

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