italian tomato– a cura di Tommaso Taramella – Un primato della Sicilia? Il pomodoro. L’Italia, con quasi 5 milioni di tonnellate, è infatti leader europeo nella produzione di pomodoro industriale e, fino allo scorso anno, seconda solo agli USA, mentre il terzo gradino del podio è occupato dalla Cina, che però presenta una produzione in forte espansione. Proprio il pomodoro cinese è tornato alla ribalta delle cronache grazie all’inchiesta de “Le Iene” che ha messo in luce il lato oscuro del pomodoro industriale.


Sembra assurdo ma, secondo quel servizio, il primo paese da cui importiamo il pomodoro industriale, per intenderci quello adatto per passate o sughi pronti, è la Cina. Grazie ad un reportage direttamente dalla Cina, si è visto come alcuni produttori italiani acquistino tonnellate di pomodoro industriale cinese, di scarsa qualità, per poi rivenderlo come Made in Italy. Questo comporta tradire la fiducia dei consumatori, i quali scelgono un prodotto italiano non per spirito patriottico, o non solo, ma lo scelgono soprattutto perché si aspettano un determinato livello di qualità. Qualità che mai come in questo caso è garanzia di un prodotto sano in quanto rispetta delle norme stringenti in termini di coltivazione, lavorazione e conservazione. Invece, ancora una volta, dobbiamo constatare come a rimetterci siano, oltre ai soliti consumatori, gli agricoltori e i produttori onesti.

L’altra faccia della medaglia di questa storia infatti sono i campi di pomodori lasciati incolti in Sicilia in quanto poco redditizi per gli agricoltori che sono costretti a vendere il frutto del loro lavoro, duro lavoro, per meno di 10cent al kilo!

A parlare del “lato oscuro del pomodoro italiano” è stata un’inchiesta dello scorso anno che possiamo trovare nell’archivio dell’ “Internazionale”. Qui si mette in luce il legame controverso che vi è tra le esportazioni di pomodoro italiano in Africa e lo sbarco di migliaia di migranti in Sicilia. Brevemente i fatti sono i seguenti, i campi africani (in particolare del Ghana) una volta ricchi di coltivazione di pomodori, oggi sono abbandonati in quanto nel Paese sono entrati enormi quantità di pomodoro in scatola a basso costo proveniente principalmente da Cina e Italia. Questo ha comportato l’impossibilità degli agricoltori locali di competere trovandosi così nelle condizioni di dover migrare verso le coste siciliane, dove spesso si ritrovano a coltivare, in condizioni anche peggiori, gli stessi pomodori che li hanno costretti ad abbandonare le loro terre.


Le due vicende sono profondamente legate e certamente più complesse di come lo ho potute sintetizzare in questo articolo e bisogna ammettere che nel servizio televisivo non ci sono prove concrete, ma solo la testimonianza di qualche produttore cinese. Però ora lasciamo la triste cronaca dei fatti per mettere in piedi alcuni ragionamenti. Entrambe le storie sono figlie di un grande cortocircuito che l’economia globalizzata ha creato e, che se non ripariamo oggi, le generazioni presenti e future pagheranno in termini di salute e di benessere personale e sociale. Il pomodoro, il nostro oro rosso, ci mostra le due grandi criticità italiane, le leggi e i controlli. Le coltivazioni cinesi, ma non solo quelle, sono soggette a regolamentazioni diverse che impongono vincoli molto meno stringenti di quelli europei (si vede bene nel servizio de “Le Iene” come i prodotti siano carichi di pesticidi e di altre sostanze vietate o ammesse in quantità molto minori nel nostro mercato), pertanto in Italia, ma possiamo tranquillamente allargare il discorso alla Comunità Europea, gli agricoltori locali che rispettano le leggi devono competere con avversari dopati, che possono passare per vie preferenziali visto che i controlli sono carenti e le leggi, complicate per gli onesti, sono facilmente aggirabili dai furbi, i quali camminano bene sul confine che divide ciò che è legale da ciò che non lo è.

Un’altra considerazione, nell’immaginario collettivo gli schiavi sono quelle persone di colore che venivano sfruttate nelle piantagioni di cotone americane più di un secolo fa. Mi chiedo cosa ci sia di diverso con le migliaia di uomini e donne (anche italiani) che ogni giorno sono costrette a “lavorare” per pochi euro all’ora o a raccolto, rischiando, e qualche volta trovando, la morte. Io non trovo molte differenze, se non che in Italia, come in Europa o negli USA, la schiavitù è stata abolita, ma di fatto, grazie a controlli (volutamente) carenti, in certi casi è silenziosamente tollerata.


A problemi complessi occorre rispondere inizialmente con soluzioni semplici, altrimenti la montagna rischia di sembrare troppo alta da scalare e ci si arrende allo status quo prima di tentare un cambiamento. Per questo propongo alla Politica, di agire step by step pur conservando una visione globale della questione. Prima di tutto vediamo ciò che non si può fare. Non possiamo tornare a politiche protezionistiche né a politiche sociali e industriali stataliste e non possiamo costruire muri antistorici. Possiamo però prendere atto dell’epoca globalizzata in cui viviamo e sfruttare i vantaggi di un mondo connesso. L’innovazione tecnologica permette alle PMI come alle grandi imprese italiane di raggiungere un bacino di possibili clienti molto maggiore, occorre agevolare questo processo di internazionalizzazione tramite una stretta collaborazione tra i vari enti governativi, le associazioni di categoria e le imprese stesse. È richiesto di definire regole chiare e valide per tutti, accompagnate da controlli frequenti e imparziali. Un’utopia direte voi, in realtà ci sono svariate proposte, su alcune delle quali si sta discutendo e nella UE si è già trovato un accordo, anche grazie al forte contributo italiano. Però è evidente che risulta ancora insufficiente. Servono controlli più adeguati per evitare il paradosso che l’Europa lasci entrare da fuori ciò che al suo interno è vietato, penalizzando in particolare le PMI che non possono e non vogliono delocalizzare. Si può iniziare col ridefinire il “Made in Italy”, che ad oggi vale oltre che per i prodotti interamente realizzati in Italia, anche per quelli che subiscono l’ultima trasformazione sostanziale in Italia e tutto ruota attorno a questo sostanziale. Il packaging può essere considerata una lavorazione sostanziale? Per un barattolo di passata di pomodoro certamente no. Introduciamo una vera tracciabilità di tutti i prodotti che si possono pregiare del marchio Made in Italy (specificare l’origine geografica delle materie prime, specificare il tipo di lavorazione sostanziale e il paese dove viene effettuata) cosa che oggi si potrebbe ottenere anche tramite delle semplici app.

La Politica italiana oggi ha davanti a sé una grande sfida, garantire un cibo sostenibile da un punto di vista ambientale, sanitario ed economico, sia per i coltivatori che per i consumatori, inoltre ha la responsabilità di favorire la libera iniziativa nella massima trasparenza, per tutelare e promuovere la fiducia tra i consumatori e creare un clima di parità tra le imprese. Staremo a vedere se sarà in grado di raccogliere questa grande sfida e guidare l’Europa verso un futuro più sostenibile, intanto andiamo a farci uno spaghetto al pomodoro, 100% italiano!


P.S.: vi invito a leggere e a sottoscrivere la Carta di Milano per il Diritto al Cibo, lascito di Expo Milano 2015 e la petizione de “Le Iene” Vogliamo il Vero Made in Italy suChange.org