Si trova a poco più di metà strada l’Ipo (offerta pubblica iniziale) che collocherà circa il 40% di Poste Italiane sul mercato, lanciata il 12 Ottobre scorso farà approdare il prossimo 27 l’azienda a Piazza Affari.
– di Antonio Pezzopane – Poco meno di una settimana e Poste Italiane sbarcherà nella borsa di Milano, l’operazione era in cantiere da qualche anno, sin dai tempi del governo Letta, e porterà delle novità importanti sul mercato azionario e non solo. Come sappiamo le Poste sono per gli italiani molto più che un vettore per spedizioni (ramo a dir il vero meno amato), sono nell’immaginario comune per i tassi vantaggiosi e la capillarità sul territorio un approdo sicuro per i propri risparmi, popolari tra anziani e giovani grazie a prodotti di successo (con numeri internazionali) come la PostePay; per questo sentire degli italiani patrimonio comune le Poste è doveroso sapere e riflettere sui cambiamenti che proprio in questi giorni l’azienda sta vivendo.
Il Ministero dell’Economia fino ad ora socio unico ha deciso di collocare poco meno del 40% di Poste in borsa, suddividendo questa quota in un 70% riservata ad investitori istituzionali (banche, assicurazioni, fondi, etc) ed il restante 30% dedicato ai piccoli risparmiatori che potranno acquistare da un lotto minimo di 500 azioni, ad un prezzo oscillante tra 3000-3750 euro. Questo in virtù della cosiddetta “forchetta di prezzo” , il range all’interno del quale il valore dell’azione varia, che gli istituti che si occupano di collocare le azioni (con relative commissioni che dovrebbero ammontare a 15 mln) aiutano a definire in base alle richieste ricevute per il prodotto finanziario. Il governo e la direzione aziendale puntano molto sul successo dell’operazione (che significherebbe raggiungere il valore massimo della forchetta di prezzo) ed hanno salutato l’operazione come –la più grande dell’ultimo decennio, se credete nell’Italia dovete credere nelle poste – ha detto il capo della segreteria tecnica di Palazzo Chigi, al quale si aggiunge Matteo Renzi che esulta: quella che decenni fa era l’azienda conservatrice più corporativa e succube della politica, risponderà agli azionisti e al mercato.
Il Presidente del Consiglio ha ragione, decenni fa. Da quando nel 2002 arrivò Massimo Sarmi alla guida del gigante dei servizi postali la situazione cambiò radicalmente, l’azienda riprese vita dopo decenni difficilissimi di clientelismo ed inefficienze, puntando sull’innovazione tecnologica e l’ampliamento dell’offerta i risultati non tardarono ad arrivare e portano alla riconferma l’Amministratore Delegato nel 2005,nel 2008 e nel 2011. I bilanci tornarono in attivo fino a toccare nel 2013 il picco di circa 1 miliardo di euro di utile, mentre la cifra che il tesoro si aspetta di incassare dalla vendita del 38.2% della società si aggira tra i 3 – 3.7 miliardi, il tutto per un nuovo valore complessivo di Poste Italiane tra i 7.8 ed i 9.8 miliardi. Cifre ben al di sotto delle previsioni del fu’ governo Letta influenzate certamente da un brusco calo degli utili di Poste (solo 200mln in un anno di transizione come il 2014 contro il miliardo dell’anno precedente) che porta in sostanza lo Stato a cedere la stessa azienda in condizioni meno favorevoli (una società che “guadagna meno vale meno”), per queste ragioni Padoan aveva manifestato irritazione nei mesi scorsi.
Il confronto di questi numeri balza anche all’occhio dei profani, è conveniente vendere per 3,7 miliardi il 40% di una società che rende in un anno 1 miliardo di euro, ovvero più di ¼ di quanto conta di incassare il tesoro? Dubbi e domande ancora più forti se si considera che la cifra, meno di 4 miliardi, servirà secondo il Governo ad abbattere il debito pubblico che invece viaggia oltre quota 2000 miliardi (numeri da far accapponare la pelle) aggravato dalla legge stabilità che prevede 24 miliardi in più di deficit per finanziare il taglio delle tasse voluto da Renzi. Impossibile anche per i più euroipocriti trincerarsi dietro un “ce lo chiede l’Europa” perché in fatto di privatizzazioni negli ultimi vent’anni abbiamo ceduto partecipazioni per 127 miliardi di euro, secondi solo agli inglesi, mentre la Germania non ha la minima idea di vendere tra gli altri il suo colosso delle ferrovie (quale sponsor commerciale migliore di Frau Angela Merkel?).
I dubbi diventano paure se si passano in rassegna i risultati delle privatizzazioni in Italia, in pochi casi andate veramente a buon fine, che hanno smantellato in alcuni settori la nostra industria e che oggi ci impongono attenzione. Attenzione nel capire quali banche ed assicurazioni arriveranno a controllare poco meno del 27% di Poste, azienda che ha spostato negli ultimi quindici anni proprio il suo core business dai servizi postali a quelli assicurativi che oggi costituiscono la maggior parte dei ricavi. Con i rami Poste Vita e Poste Assicura in grande salute i maligni vorrebbero gli speculatori alla ricerca di uno scorporo così da lasciare in mano dello Stato i servizi economicamente meno remunerativi gestiti oggi da Poste, ipotesi senz’altro da scongiurare.
Riflettere sui rischi è propedeutico a comprendere quale strumento straordinario può essere il mercato azionario che permette l’afflusso di capitali freschi da tutto il mondo a patto che si metta in campo un piano industriale credibile. Allo stesso modo è sbagliato chiudersi a riccio se si parla di privatizzazioni che devono servire a favorire la competitività e a rafforzare il Paese, perché vengano raggiunti questi due obbiettivi però ci si deve muovere con consapevolezza ed onestà tra liberalizzazioni e monopoli; servono poche ma chiare regole per favorire veramente le capacità imprenditoriali, quelle serie.
@AntonioPezzopan