– di Filippo Del Monte – L’enorme campo profughi di Calais, noto come “la giungla”, è stato sgombrato e smantellato da circa 3000 agenti di polizia. Le autorità transalpine – non potendo più oggettivamente gestire circa 10000 persone ammassate sulle rive della Manica – hanno deciso lo sgombero annunciando l’inizio dell’operazione per lo scorso 24 ottobre. La massiccia presenza di agenti in assetto anti-sommossa non ha comunque permesso di evitare incidenti e numerosi sono stati gli scontri documentati con folti gruppi di immigrati organizzati. La “giungla” di Calais aveva assunto fin da subito l’aspetto di una baraccopoli, di quelle che si vedono nelle periferie delle megalopoli, trasportata però in una città di circa 74000 abitanti. Va da sé che la “bomba sociale” era stata innescata da tempo.
Anche se l’operazione di sgombero è stata compiuta abbastanza rapidamente e della “giungla” restano solo le fiamme appiccate dagli immigrati rivoltosi, lo strascico politico e sociale sarà lungo. La Francia non è nuova a rivolte “etniche” di minoranze ben organizzate; gli scontri violenti nelle banlieues sono l’esempio più eclatante di una situazione fuori controllo che ha messo in dubbio l’efficacia dell’assimilazione culturale. La comparsa di vere e proprie “zone franche” nelle città dove lo Stato non riesce ad esercitare la propria autorità è stata la pericolosa conseguenza del metodo di gestione dell’emergenza migratoria non solo in Francia, ma in altre aree d’Europa. Per come era stata concepita e poi gestita “la giungla” di Calais la naturale conclusione non poteva che essere quella di una zona franca dove criminalità e miseria si autoalimentavano senza che le forze dello Stato potessero intervenire.
Calais è stato solo l’ultimo e più eclatante caso, bisogna infatti tenere presente che situazioni di scontro etnico ove le minoranze si ribellano al potere costituito statale sono ormai una triste realtà europea: dalle già citate banlieues, ai riots britannici, fino alle aree periferiche italiane, tutti i Paesi del Vecchio Continente sono costretti a fare i conti con gli effetti collaterali del fenomeno migratorio senza che gli Stati vi pongano rimedio alcuno. I casi di rivolta popolare a Goro e Gorino vanno letti con una lente particolare legata sotto certi aspetti alla vicenda di Calais: non ci si deve fermare all’aspetto superficiale del “brutale” respingimento di donne e bambini, quella è stata conseguenza di un’esasperazione da non sottovalutare dei cittadini nei confronti di uno Stato che comincia a non essere più percepito come semplicemente assente ma come un nemico.
Il rischio che nello “scontro etnico” – le virgolette sono d’obbligo – si inserisca anche una forte componente ostile verso le scelte di un apparato statale distante e distaccato è palpabile. In casi del genere non si può ricondurre tutto all’ignoranza del cittadino medio – come il prefetto di Ferrara ha vergognosamente tentato di fare – ma bisogna comprendere che la gran parte delle colpe sono di uno Stato che è stato incapace di progettare un vero programma di integrazione e che alle prefetture è stato impedito di fungere da “cinghia di trasmissione” tra le decisioni del governo centrale e le richieste degli amministratori locali. Per “cinghia di trasmissione” non si intende la meccanica e pedissequa esecuzione degli ordini impartiti dall’alto, ma la capacità di farsi comprendere dalle comunità locali e contemporaneamente comprenderle. Non si può pretendere di imporre la presenza di immigrati e poi stupirsi di eventuali proteste da parte dei cittadini; e che queste proteste siano politicamente manovrate o meno poco importa.
Dove gli immigrati vengono impiegati in lavori socialmente utili riuscendo ad integrarsi non accadono episodi del genere; dove invece si decide di “riconvertire” paesini e città ad “alberghi” per immigrati allora ecco comparire i primi segni di insofferenza che poi possono sempre degenerare in episodi più o meno sediziosi. Quello che all’Europa manca è una vera e propria “cultura dell’integrazione” da contrapporre alla “cultura dell’accoglienza” che produce effetti devastanti sul tessuto sociale perché erge barriere dove non andrebbero costruite. L’accoglienza coatta – obbligatoria anche quando non si hanno le risorse necessarie – che tanto piace alla sinistra ed alle “anime belle” italiane ci porta più vicini allo scontro etnico ed identitario di quanto si immagini. L’integrazione rappresenta invece la volontà e la capacità di comprendere l’altro senza smarrire le proprie radici e senza vedere “stuprata” la propria identità. Perché il vero problema è a monte: non sono tanto gli immigrati ad attaccare l’identità dei popoli europei, quanto le attuali classi dirigenti del Vecchio Continente, indottrinate – con qualche fortunata eccezione – alla cultura dell’accoglienza a tutti i costi.