A cura di Francesco Severa – E’ davvero singolare ed originale questa campagna presidenziale del 2016. Non è detto però che sia sempre avvincente. Questa notte, con il terzo ed ultimo dibattito tra Donald Trump ed Hillary Clinton, ha toccato forse il suo momento più noioso e monotono. Le solite accuse di sessismo da una parte ed inettitudine dall’altra, intervallate da qualche sparuto contenuto, soprattutto economico, segno che nonostante questa generale assuefazione allo scontro muscolare, forse c’è ancora posto per la degenere voglia degli elettori di crearsi un’opinione. Che poi questi confronti televisivi in America alla fine non sono altro che duelli rituali, portati alla massima spettacolarizzazione, e non certo approfondite discussioni su futuri programmi di governo. Servono più a galvanizzare chi ha già deciso, che a convincere gli indecisi. Tornando a ieri notte, il vero protagonista di più di un’ora e mezza di discussione non è stato però nessuno dei due candidati, quanto invece il moderatore, tale Chris Wallace, volto della rete televisiva conservatrice Fox News. Efficace e diretta la sua conduzione, che con un ritmo incalzante e non rare interruzioni richiamava spesso i due politici, perché evitassero divagazioni e rispondessero alle domande in maniera puntuale. Cosa che in realtà ha messo in difficoltà entrambi. Altro segno della grande esperienza del giornalista è stata la capacità di trattare durante il dibattito tematiche di norma tradizionali nel confronto politico statunitense, ma che, nonostante questo, erano rimaste fuori da questa campagna. La prima domanda per esempio riguardava le caratteristiche che secondo i candidati dovrebbero possedere i giudici della Corte Suprema che eleggeranno in un loro eventuale mandato presidenziale. Mentre la risposta della Clinton è stata abbastanza scontata e fumosa, Trump è sceso molto più nel particolare, facendo riferimento alla lista di venti nomi di possibili giudici da lui pubblicata all’inizio della campagna elettorale. Tutti giudici conservatori e che difenderanno la Costituzione, ha tenuto a ribadire il repubblicano; in particolare il secondo emendamento – quello che garantisce il possesso di armi per tutti i cittadini americani. Da qui è scoppiata la polemica della Clinton, che ha accusato il rivale di aver ricevuto l’appoggio elettorale della National Rifle Association – la lobby dei costruttori di armi. Cosa di cui, nella replica, Trump si è detto “proud” – orgoglioso. Altra domanda inaspettata da parte di Wallace è stata quella che chiedeva conto ai candidati della loro opinione sull’aborto, tema assai divisivo negli Stati Uniti d’America e dirimente per spingere al voto le grandi organizzazioni religiose protestanti e cattoliche, ma che negli ultimi mesi era un po’ uscito dalla scena. Prende subito la parola Trump: “nominerò giudici che sono contrari all’aborto. Decideranno gli stati. Ma con i miei giudici pro-life l’aborto potrebbe essere abolito”. La Clinton la butta subito sul sessismo, spiegando che l’aborto va difeso quale libera scelta delle donne. Sessismo che sembra oramai tema ricorrente di questa campagna elettorale, giocata dalla Clinton sul pregiudizio, indecente e scorretto, che vorrebbe il rivale come la rappresentazione plastica dell’uomo occidentale sfruttatore e misogino, ignorando però la surreale dichiarazione in suo favore di una famosa cantante che promette, a chi voterà democratico, la stessa prestazione sessuale che altre concedevano al marito della candidata perfino nello Studio Ovale. Ma c’è stata un’altra domanda del nostro moderatore, in apparenza assolutamente innocua e scontata, che però è riuscita ad assegnare un ulteriore primato storico a queste elezioni presidenziali, che non pochi già ne avevano conquistati. Più volte durante i comizi in giro per gli States, Donald Trump, come anche molti del suo staff, aveva sollevato il problema dei brogli elettorali. Del fatto cioè che in alcuni stati democratici si stesse procedendo ad una sistematica assegnazione della cittadinanza a persone di origine ispanica perché potessero votare il prossimo otto novembre. Cosa in realtà tutta da provare. Era venuto spontaneo dunque a molti commentatori cominciare a chiedersi se davanti a queste molteplici accuse assai gravi del candidato repubblicano, egli avrebbe accettato pacificamente un esito del voto a lui sfavorevole. Wallace con grande maestria pone la domandina magica a Trump durante il dibattito: “accetterà il risultato delle elezioni?”. Il repubblicano da una risposta storica con naturalezza estrema: “ve lo dirò al momento”, e poi incalzato, “I will keep you in suspence” – vi lascio in suspence. Ora quella che ad un osservatore italiano può sembrare una gaffe poco istituzionale, ma poi non certo di una gravità estrema, ha negli Stati Uniti d’America un profondo valore storico e culturale. Non è un caso che sulla porta della libreria della facoltà di legge di Harvard sia iscritto il motto latino “non sub nomine, sed sub deo et lege”, a sottolineare quale importanza abbia per gli americani la distinzione tra le cariche istituzionali della Repubblica, a cui si deve sempre rispetto, e gli uomini che pro tempore le ricoprono. Era il 1860 quando le presidenziali furono vinte da Abramo Lincoln, repubblicano abolizionista, inviso ai democratici del sud, che rappresentavano i grandi latifondisti, bisognosi della forza lavoro degli schiavi per mandare avanti le loro piantagioni. Questi ultimi non avevano intenzione di riconoscere un’amministrazione presidenziale apertamente schierata per l’abolizione della schiavitù. Fu il senatore democratico Stephen Douglas, sconfitto da Lincoln alle elezioni, a tentare di evitare conseguenze più dure con una frase rivolta al nuovo presidente, rimasta storica in America: “Partisan feeling must yield to Patriotism. I’m with you, Mr. President, and God bless you” – i sentimenti partitici devono cedere al Patriottismo. Io sono con lei, Signor Presidente, e Dio la benedica. Nonostante gli sforzi di Douglas a pochi mesi dalle elezioni scoppiò la guerra di secessione americana, che segnò profondamente il paese. Per venire ad avvenimenti più recenti, durante le elezioni presidenziali del 2000, che videro lo scontro tra Bush figlio e Al Gore, l’assegnazione dei decisivi grandi elettori della Florida fu in ballo per settimane dopo la chiusura dei seggi in quanto il margine di vittoria di Bush nello stato era così basso – poco più di 500 voti – che per legge era iniziato un riconteggio delle schede che, essendo legato al rispetto di tempistiche definite legalmente, nel momento in cui si prolungò oltre i tempi previsti, venne interrotto dalla Corte Suprema che assegnò la vittoria al candidato repubblicano nella famosa sentenza Bush vs Gore. Al Gore contestò il risultato, ma in un memorabile discorso in Senato riconobbe la vittoria del rivale “for the sake of our unity of the people and the strength of our democracy” – per il bene della nostra unità del popolo e per la forza della nostra democrazia. Insomma è culturalmente, prima che politicamente, inconcepibile che un candidato alle presidenziali non possa riconoscere, anche solo in astratto, la vittoria dell’avversario. Significherebbe porsi al di fuori di quelle regole del gioco che comunemente vanno riconosciute, giustificando una critica alla carne più viva della democrazia americana. Quale strategia sta seguendo Trump? Davanti ad un avversario come la Clinton che sta sempre più sottolineando la sua attitudine presidenziale, contrapposta ad una evidente impreparazione della controparte, perché continuare a portare avanti temi divisivi? Perché non tentare di abbassare i toni e conquistare il voto di quegli elettori indecisi, che magari sono arrabbiati con il sistema, ma che hanno difficoltà a riconoscersi in una personalità così estrema? Perfino Charles Krauthammer, famosissimo giornalista conservatore, ha parlato ieri di suicidio politico. E’ sicuramente vero che le reali dimensioni di quello che Trump chiama il suo “movement” non sono facilmente inquadrabili dai sondaggi visto le particolari caratteristiche di chi vi aderisce e che dunque non è detto che il trend sfavorevole di questi giorni sarà poi confermato nelle urne. Ma tale movimento ha le dimensioni tali da assicurargli la vittoria da solo e senza l’aiuto dell’elettorato repubblicano più moderato? Un elettorato, quest’ultimo moderato, che con poco potrebbe essere rubato da Hillary Clinton: gli basterebbe convincere un grande leader repubblicano ad appoggiarla pubblicamente. E un possibile nome già esiste. E’ quello di John McCain.