-di Filippo Del Monte- Quest’anno si celebrano i 70 anni dalla fondazione del Movimento Sociale Italiano, partito-simbolo della destra italiana del dopoguerra, capace di attraversare cambiamenti epocali senza perdere la bussola ma anche forza politica squassata internamente dalle frizioni tra le varie correnti che non accettavano che il MSI fosse un “blocco sintetico” sul modello dell’antenato Partito Nazionale Fascista. Quella del MSI fu un’esperienza importante e gettò le basi per la cultura attuale della destra italiana, quella che purtroppo si sta smarrendo politicamente. Eppure il modo migliore per festeggiare questi settanta anni del MSI non è quello di fargli elogi sperticati ma anche di presentare un’analisi critica di un passaggio fondamentale di quella storia: l’eterna contraddizione tra fascismo ed antifascismo o tra sogni di essere alternativi al sistema e la dura necessità di “fare politica”.
Il Movimento Sociale Italiano non ha mai superato nel corso della sua storia il dilemma fascismo/antifascismo, o meglio, non è riuscito a rapportarsi con la pesante eredità che la cultura politica fascista gli aveva lasciato. Effettivamente risulta difficile individuare dei “punti fermi” nel fascismo e la stessa “Dottrina del Fascismo” (1932) di Mussolini e Gentile non aiuta a risolvere i dubbi né a colmare le lacune. Il fatto stesso che il fascismo sia definito come un “grande fiume” in cui trovare tanto Malaparte quanto Fanelli non consente di dare una definizione univoca del fenomeno. L’ideologia “sintetica” del fascismo non è che “l’universalità di tutte le dottrine”. Date queste premesse è chiaro che parlare di fascismo come di un monolite non è corretto e che ogni teorico poteva apportare il suo contributo alla costruzione dell’impalcatura dottrinaria. Venuta meno la “sintesi” mussoliniana le varie componenti del neofascismo furono messe di fronte alla dura realtà che imponeva una scelta fondamentale: come e se restare fascisti nel quadro democratico ed escludente del dopoguerra.
Nel periodo del referendum istituzionale Romualdi aprì al dialogo tanto con i repubblicani quanto con i monarchici sperando in un rapido reinserimento degli ex fascisti nel sistema politico italiano. Quando le sue speranze furono disattese, la nascita del MSI fu propedeutica ad un recupero dei “dispersi” fascisti così da evitarne il passaggio in blocco tra i ranghi delle sinistre comunista e socialista. Durante la segreteria di De Marsanich (1950-1954), con il motto “non rinnegare non restaurare” il partito cercò un compromesso tra la necessità di agire in democrazia e quella di tenere unite le varie componenti interne attorno al mito fondante del fascismo (anche se in questo caso sarebbe più corretto parlare di “mussolinismo”). E’ nei primi anni ’50 che riemergono tutte le divisioni interne al frastagliato mondo neofascista, con la presenza nel MSI della destra evoliana dei “figli del sole” (Rauti, Erra), del centro nazional-conservatore (Michelini) e della sinistra socializzatrice (Massi, Palamenghi Crispi). Mentre il centro di Michelini puntava pragmaticamente all’inserimento nel sistema seguendo la linea romualdiana del partito atlantico ed anti-comunista, gli evoliani – a dispetto di una vastissima produzione teorica – si chiusero nella loro “torre d’avorio” non riuscendo ad influire concretamente sulle scelte del MSI. Diverso il discorso per la sinistra – erede delle esperienze del diciannovismo, della sinistra fascista e della RSI – capace di interpretare realisticamente la situazione economica ma che fu “tagliata fuori” dagli schemi politici a causa della sua visione geopolitica mediterranea e terza-forzista proprio nel momento in cui l’Italia si stava legando a doppio filo con il blocco occidentale.
A causa del “distacco” dal contesto politico sia dei “figli del sole” che dei sociali, il centro micheliniano riuscì ad imporre la propria linea di inserimento nel sistema e di accettazione della democrazia “a condizione”. Questa fu una linea duramente criticata da Giorgio Almirante – che giudicava la sinistra nazionale e socializzatrice come l’unica erede e custode del fascismo – ma fu da lui stesso approvata quando divenne segretario del MSI per la seconda volta. Non vi è dubbio che l’uscita dal MSI degli evoliani (con la fondazione del Centro studi Ordine Nuovo) e della sinistra (con il fallito esperimento del Partito Nazionale del Lavoro) nel 1956 abbia favorito la linea dei “fascisti in democrazia”. Eppure il fascismo restava un riferimento ingombrante, forse proprio quello che impediva un inserimento fattivo del Movimento Sociale Italiano nel sistema. La riproposizione dello schema “sintetico” proprio del PNF – che consentiva al MSI di essere un partito complesso e ad “offerta libera” – non piaceva né a Julius Evola né ai cattolico-corporativisti Accame, Siena, Gianfranceschi e Di Marzio. Tanto la componente evoliana quanto quella cattolica pretendevano dai dirigenti del MSI una scelta di campo ben precisa e questa poteva passare solo attraverso una storicizzazione del fascismo. In questo senso va interpretata la breve ma significativa esperienza della rivista romualdiana “ Il Popolo italiano ” (1956-1957) sulle cui pagine le anime “antisintetiche” del MSI collaborarono in un primo tentativo di andare oltre il fascismo storico.
Le critiche, anche dure, fatte da Evola al fascismo ed alla politica mussoliniana furono le prime vere “picconate” inferte al blocco “sintetico” radunato attorno ad Almirante. L’ex capo di gabinetto del MinCulPop aveva infatti fondato la sua gestione del partito sulla difesa dell’identità, sul nostalgismo in grado di dare una certa coesione agli ambienti missini, che costituì però quel “mito incapacitante” che impedì ai neofascisti di archiviare la delegittimazione. Se all’esterno Almirante perseguiva una linea di avvicinamento alle forze del centro-destra, esisteva comunque una sorta di linea rossa da non oltrepassare, pena la disgregazione del partito neofascista. Al nulla dies sine linea di Mussolini andava a sommarsi la strenua difesa della purezza ideologica da parte di Almirante. Ogni tentativo innovatore – emblematico è il caso della Nuova Destra di Marco Tarchi – era un potenziale tradimento e gli intellettuali dei probabili nemici. Certamente grazie al “nostalgismo almirantiano” il MSI evitò di essere fagocitato dalla DC. Un partito fondato esclusivamente sull’ anticomunismo si sarebbe facilmente inserito nel sistema ma avrebbe avuto vita breve; invece un partito capace di far leva sulle passioni di un mondo che doveva ricompattarsi e che ne rappresentasse l’unica “valvola di sfogo” sicuramente sarebbe stato delegittimato fin da subito ma sarebbe sopravvissuto.
Un partito delegittimato, estraneo alle logiche dell’arco costituzionale, doveva necessariamente essere alternativo al sistema per (ri)conquistare il potere. Fu con la prima segreteria di Almirante (1947-1950) che il MSI assunse la sua fisionomia identitaria ed alternativa. Esistono però due modi differenti di interpretare questa alternativa. Il primo – proprio di Almirante e di quanti gli orbitavano intorno – prevedeva un utilizzo “strumentale” di tutte le tematiche che in un modo o nell’altro potessero risultare alternative: socializzazione e corporativismo erano due modelli economici non riproducibili nell’Italia del dopoguerra, eppure il MSI non esitò a presentare ogni anno proposte in Parlamento per renderli legge. Non si trattava di ostinazione ma di un segnale lanciato alla propria comunità umana e politica. Dunque quella almirantiana – e sotto certi aspetti romualdiana – era una “finta alternativa” ad uso e consumo interno. Innanzitutto perché questa alternativa non prevedeva un reale superamento del fascismo od anche una semplice riflessione su di esso; e poi perché le pulsioni rivoluzionarie e potenzialmente eversive del neofascismo erano incanalate e depotenziate nella ricerca di un modello culturale alternativo. Privo della forza per “fare la rivoluzione” ed incapace di inserirsi democraticamente nel sistema, il MSI avrebbe potuto rappresentare una reale alternativa solo rinnegando la propria storia o recidendo tutti i ponti con il passato.
Il secondo modo di interpretare l’alternativa è quello delle correnti radicali del MSI e del neofascismo, in particolare la destra evoliana prima e l’ala antagonista rautiana poi. Evola non era stato il filosofo del fascismo e non lo fu del neofascismo; anzi, molte sue teorizzazioni erano estranee non solo alla cultura propriamente fascista ma anche a quella della destra italiana in generale. Se la battaglia antimoderna risultò per forza di cose persa in partenza, le critiche che il filosofo romano mosse al MSI ed al fascismo – nei vari aspetti del corporativismo, dell’interpretazione del Risorgimento, del modello statuale, della funzione del partito e del rapporto tra capo e popolo – espressero un malcontento nei confronti della “sinteticità” e del “nostalgismo almirantiano” che furono poi il brodo di coltura per la nascita di una vera e propria corrente evoliana. Questa componente si raggruppò attorno alla rivista ” Imperium “, foglio elitista-razzista-antimoderno su cui si formerà Pino Rauti prima della svolta antagonista del 1976. Del 1956 furono gli ultimi sussulti degli evoliani nel MSI che cercarono poi altre strade a causa del moderatismo micheliniano prima e del progetto almirantiano di “Destra Nazionale” poi. Dall’idea di Luciano Lucci Chiarissi nel 1963 nacque la rivista L’Orologio, portatrice di una concezione nazional-rivoluzionaria innovativa e capace di attirare nella propria orbita specialmente i militanti del Fronte della Gioventù (in netta contrapposizione con Almirante) e quanti stavano tentando di dare una prospettiva di destra alla contestazione montante. La rivista di
Lucci Chiarissi diede voce ad un “altro ’68” con la sua idea di Europa unita, imperiale ed armata e
con la sua critica al patriottismo ed al perbenismo missini dei tardi anni ’60. Furono i Gruppi de
L’Orologio a dare nuova linfa al termine “nazionalpopolare” inserendolo nel lessico delle componenti antagoniste interne al MSI.
Nel 1969 Pino Rauti tornò nel MSI dopo l’esperienza ordinovista ma non era più il teorico evoliano de ” La Sfida ” o di ” Imperium “, bensì il promotore di un nuovo metodo d’interpretazione della storia, della politica e della società per una destra che stava attraversando la bufera del ’68 e del compromesso storico senza comprenderli pienamente. A detta dello stesso Rauti la vittoria di Almirante al congresso del 1969 sembrò aprire prospettive nuove rispetto alla grigia gestione di Michelini, prospettive da sfruttare per dare la svolta al MSI e più in generale al neofascismo. Tali speranze furono disattese dalla volontà di “fare politica” del segretario, dunque dalla ricerca di un compromesso che sfociò nelle operazioni “Destra Nazionale” e “Costituente di Destra per la Libertà”. Eppure, con il fallimento della svolta conservatrice nel 1976, Rauti lanciò la parola d’ordine di “sfondamento a sinistra”, avviando un periodo di profonda ed importante riflessione interna al MSI ma proiettata anche all’esterno. Con la rivista Presenza i rautiani garantirono una vetrina a temi innovativi come l’ecologia, la geopolitica e, perfino, la musica. Attraverso l’elaborazione dei tre concetti di tradizione, storia e politica Rauti diede forma ad una suggestiva alternativa (che però alla prova dei fatti, cioè con la segreteria di Rauti, si dimostrò inconsistente ed impraticabile). Il coinvolgimento del popolo visto come momento essenziale della costruzione della
Nazione, il rovesciamento dell’analisi socio-economica marxista ed il ribaltamento delle concezioni peculiari della destra fruttarono a Rauti un certo consenso nel FdG ed un vivo interessamento da parte dei settori culturalmente più avanzati della sinistra. Eppure, come già detto, l’alternativa al sistema fu una strada impossibile da percorrere per un partito che non aveva mai voluto riflettere sulla propria storia.
In un certo senso il pragmatismo, il nostalgismo e l’alternativa al sistema furono tutti frutto di un’incapacità di storicizzare e superare l’esperienza fascista. Una volontà di fare politica esisteva, eppure né con il “doppiopettismo” micheliniano né con gli ammiccamenti di Almirante alle forze della destra non fascista si riuscì ad uscire dal ghetto. Nemmeno Democrazia Nazionale rappresentò una reale alternativa al MSI perché fu una scissione dei vertici e non coinvolse una base tutt’altro che pronta a lasciarsi alle spalle il mito di Mussolini. Dunque per quanto ci si sforzasse di trovare un modo di entrare a pieno titolo nel sistema politico italiano, il MSI si ritrovò ad essere sempre un paria (i fatti di Genova ’60 e la caduta del governo Tambroni lo dimostrano) o, al massimo, la “massa di manovra” del fronte anti-comunista a guida democristiana. Non potendo entrare nel sistema dalla porta principale, la “riserva indiana” da zavorra diventò mito per i militanti missini. Esisteva però un problema: la mitizzazione del “ghetto” imponeva il divieto assoluto di mettere in discussione il fascismo. Questo significò accettare tacitamente la conventio ad excludendum dell’arco costituzionale nei confronti del partito neofascista. La “riserva indiana” fece da collante tra le “verghe” di un fascio che aveva perso le sue corregge con la morte di Mussolini. Chi si ribellava a questo conformismo abbandonò l’agone politico rifugiandosi in quello culturale, estraniandosi sostanzialmente dalla storia e cercando modelli “altri”, per giunta irrealizzabili. Quelli che in potenza si presentavano come modelli alternativi al sistema erano poi null’altro che “fughe dalla
realtà”. L’estraniazione dal panorama politico quotidiano rappresentò il vero punto debole per quanti all’interno del MSI fecero proposte antisistemiche.
Il Movimento Sociale Italiano ebbe il merito storico di aver dato una casa comune agli ex fascisti, di aver garantito ai “vinti” una sopravvivenza politica. Eppure la delegittimazione di cui fu oggetto impedì al MSI di fare proposte politiche concrete, di rappresentare un’alternativa effettiva e non solo ideale al sistema politico “nato dalla Resistenza”. Ai neofascisti, oltre alla sopravvivenza, doveva essere garantita anche una cittadinanza politica ma la “vestale del nostalgismo” – come Lucci Chiarissi chiamò la destra neofascista – si nutrì del mito degli “esuli in patria”, non lo contrastò. L’unico fattore che avrebbe permesso questo probabilmente sarebbe stato il superamento totale e definitivo del fascismo, eppure nessuno se la sentì di intraprendere questa strada. Persino chi tentò di “fare politica” non riuscì a superare – che non significava per forza rinnegare – l’esperienza fascista e fu questo che impedì al MSI tanto di essere alternativo al sistema, quanto di essere parte integrante di esso, costringendolo a navigare in un “limbo” senza uscita.