immagini.quotidiano.net– A cura di Francesco Severa – Si nasconde sempre qualcosa di profondamente evocativo nelle parole e nei nomi che utilizziamo per definire ed indicare ciò che ci circonda. Il nostro linguaggio è un veicolo straordinario non soltanto di concetti, ma anche di emozioni, suggestioni e sentimenti. Esso porta con se il lascito di una civiltà e di un mondo, di un culto perfino. Il figlio più proprio e riuscito di una comunità perché capace di sancire appartenenza e condivisione; di esprimere un dominio assoluto su un pensiero, una filosofia, una storia. “L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi”, dice la Genesi, perché all’uomo Dio da il compito di ordinare il Creato ed ordinandolo, donargli un senso. Ma è quando il linguaggio da patrimonio di un popolo diviene strumento di un gruppo ristretto, che perde il suo dovere elettivo e può trasformarsi in un’arma distruttiva. E’ quando si comincia a sostituire un nome con un altro, che si comincia colpevolmente a sostituire un concetto con un altro. Non si fa forse questo quando all’augurio di una “buona domenica”, invito sentito a passare un giorno della settimana, “il primo della settimana”, alla ricerca della nostra parte spirituale, si sostituisce “buon fine settimana” – peggio se nella forma albionica di “buon weekend” -, invito a terminare sette giorni di lavoro frustrante cercando un po’ di effimera felicità prima di ricominciare? Avviene nell’indifferenza questa sottile distruzione della coscienza civile di un popolo. Ecco allora che il semplice fatto di chiamare le cose con il proprio nome diviene un gesto rivoluzionario. Ecco, rivoluzione. Rivoluzione intesa nel più vero e meraviglioso senso che questo termine possiede. Il duplice senso di qualcosa che modifica il presente stato delle cose, ma che, allo stesso tempo, recupera, ancor di più “converte” ad una Memoria, ad una Tradizione. E’ giusto allora che si faccia chiarezza davanti a mistificazioni del linguaggio fin troppo evidenti e finalizzate ad una volontaria ridefinizione politica della realtà. E’ quello che è accaduto mercoledì man mano che arrivavano notizie dal mercato di Sarona, al centro di Tel Aviv, quella splendida città pur sempre bagnata – non dimentichiamolo mai – dal Mare Nostrum. Era di una “sparatoria” che parlavano alcuni media italiani; parlavano semplicemente di “due uomini armati” non meglio identificati, che avevano deciso di aprire il fuoco e uccidere quattro persone innocenti in un locale del centro. E’ incredibile che, con il solo scopo, tutto ideologico, di avversare uno stato e un popolo, si arrivi a distorcere a proprio piacimento la realtà con queste tecniche da “neolingua” orwelliana. Chiamiamo le cose con il loro nome. Quello che è accaduto a Tel Aviv mercoledì non è stata una semplice “sparatoria”, ma un vile “attentato”; gli uomini che hanno sparato non erano due anonime presenze ma dei “terroristi”; questi terroristi non sono sbucati dal nulla, ma venivano da Yatta, a sud del monte Hebron, una località della Cisgiordania, dunque erano “palestinesi”. Ancor peggio è il fatto che a tali volute reticenze si aggiunga il silenzio; quel silenzio che vorrebbe distinguere qualitativamente gli innocenti uccisi dal terrorismo islamico in Israele da quelli uccisi a Parigi e Bruxelles. Ristabilire la verità con le giuste parole è necessario ancor più oggi, quando difronte la profonda crisi della nostra identità europea, causata da fattori interni ed esterni, preferiamo esorcizzare le nostre paure con la viltà di raggiri linguistici, piuttosto che affrontarle chiamandole per nome. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” diceva quel Dio che decise di farsi Uomo proprio in quella terra di Israele che oggi difende con le armi e con la gioia un avamposto di civiltà in un mare di barbarie. Un’ultima testimonianza del grande potere che hanno i nomi e le parole voglio offrirvela. A sole 18 ore dall’attentato, il ristorante colpito era tornato alla normalità. Nel piccolo giardino che lo fronteggia si era riunito un gruppo di giovani che raccolto in cerchio, sventolando la bandiera con la Stella di David, cantava “am yisra’el ḥay” (עַם יִשְרָאֵל חַי ), che possiamo tradurre “viva il popolo di Israele”. In questa frase troviamo una parola, piccola ma fondamentale per la cultura ebraica, che traslitterata possiamo intendere come “hay” (חַי). Essa significa “vivo”, “vivente”, “vita”. Insomma mentre a qualche centinaio di chilometri di distanza, nella striscia di Gaza, non pochi festeggiavano per le strade la buona riuscita di un atto atroce, in quello che si era trasformato in un luogo di morte c’era chi con coraggio gridava il suo amore per la vita, anzi di più, solennemente giurava che il suo popolo era vivo. E quella parola si è trasformata in un’ardente fiamma di speranza per tutti quelli che cercano un’esistenza normale nella città il cui nome significa “la collina della primavera”.